Da domani la Lombardia sarà zona arancione, il ministro della salute Roberto Speranza ha firmato l’ordinanza che entrerà in vigore il 29 novembre. Sulla data si era consumato l’ennesimo scontro tra il presidente lombardo Fontana e il Governo. Il ministro Speranza aveva chiesto di far slittare l’allentamento delle restrizioni al 3 dicembre per consolidare il miglioramento dei dati lombardi. Le tre settimane di mini lockdown hanno diminuito la pressione sugli ospedali, ma il numero di terapie intensive occupate resta sopra 900 e i morti giornalieri sono mediamente attorno a 190.

La giunta lombarda aveva promesso ai negozianti la riapertura già da oggi per favorire lo shopping in questo week end che apre i fine settimana pre-natalizi e con i maxi sconti del black friday. L’unico settore sacrificabile per il leghista senza troppi patemi è la scuola, dove la battaglia è stata fatta per mantenere la didattica a distanza. «Grazie ai sacrifici dei lombardi, apprezzati i dati epidemiologici, ora siamo in zona arancione e potremo riaprire gli esercizi commerciali» aveva twittato nel pomeriggio Fontana anticipando la comunicazione del ministero. Contro l’allentamento delle misure c’era quasi tutto il mondo sanitario, dai medici di base agli anestesisti.

Fontana in futuro dovrà recuperare la fiducia del settore sanitario, o almeno provarci. La Lombardia si è fatta travolgere dalla seconda ondata, nove mesi dopo la prima si è fatta trovare ancora impreparata nonostante gli avvertimenti fatti arrivare per mesi dal mondo medico. Il fallimento del modello sanitario lombardo, plasmato da oltre vent’anni d’ideologia liberista applicata alla sanità pubblica, è un fatto ormai conclamato che sta costringendo il centrodestra lombardo a una riforma che si muove su crinale scivoloso, tra la scomunica di quanto fatto in questi anni e la paura di auto-delegittimarsi troppo. Così la maggioranza in questo momento ha tre gruppi diversi che stanno lavorando a tre proposte di riforma che obbligatoriamente alla fine dovranno convergere in un testo comune. Il primo gruppo di lavoro fa riferimento alla Direzione generale della Regione e quindi all’assessore Gallera e al suo ex braccio destro Luigi Cajazzo, il secondo è composto da un team di esperti, il terzo è esclusivamente della Lega.

Il modello sanitario lombardo è fallito nei servizi territoriali e nel rapporto squilibrato tra pubblico e privato. La riorganizzazione fatta dall’allora presidente leghista Maroni ha generato frammentazione con la nascita della Ats territoriali e ha rotto il rapporto di collaborazione con i medici di base. Del resto la Lega è quel partito che diceva che i medici di famiglia sarebbero stati inutili perché le persone possono informarsi su internet e andare direttamente dallo specialista in ospedale. Ora la Lega, nelle bozze della riforma, chiede ai medici di base di aggregarsi e garantire il servizio ai cittadini almeno sei giorni a settimana su 12 ore giornaliere. Il gruppo degli esperti chiede invece il potenziamento della unità Usca, altro fallimento della gestione Covid. Sarebbero dovute essere 202, sono 157. Durante il mese di ottobre e nelle prime due settimane di novembre non sono state in grado di garantire un’adeguata assistenza domiciliare.

Sul rapporto pubblico-privato, la fetta più corposa della spesa sanitaria regionale, la Lega propone di rivedere il sistema di finanziamento in base agli obbiettivi di cura. Significherebbe coinvolgere i privati nella programmazione pubblica sulla base dei fabbisogni reali dei territori. Per fare cassa la Lega ha proposto anche di costituire un fondo d’investimento dentro cui far finire i beni immobili delle Ats e delle Asst, che significherebbe la possibilità di vendere il patrimonio immobiliare pubblico.
Intanto ieri Salvini è tornato a dettare la sua agenda in regione dove c’è stata una riunione tra i consiglieri leghisti, Salvini e Fontana e per la prima volta i consiglieri leghisti hanno chiesto conto a Fontana di alcune cose che non hanno funzionato nella gestione Covid a partire dai vaccini antinfluenzali acquistati in numero insufficiente rispetto al bisogno reale.