Arrivo presto sabato mattina, sono in anticipo. Fatico un po’ a trovarlo, la zona è immersa nel verde. A prima vista, è un enorme blocco di cemento, non così grigio quanto mi aspettavo. Per arrivare all’ingresso bisogna percorrere una strada d’asfalto malmessa, costeggiata da alberi e vegetazione spontanea su un lato. Dall’altro il parcheggio delle auto. Arrivo al «muro di cinta». Saprò solo in seguito che si chiama così. Un grande spiazzo d’asfalto presiede il gabbiotto delle guardie. Mi avvicino e chiedo se sia quello l’unico punto d’ingresso. Mi guardano corrugando il viso e mi chiedono: «In che senso ingresso? Lei è autorizzato?». Li rassicuro, dico che ho un appuntamento all’ingresso, e che aspetto gli altri per entrare. Là fuori vi sono due bambini che giocano ed alcuni adulti. Non capisco che cosa facciano lì. Alcuni sono italiani, altri no. Dopo mi diranno che attendevano l’orario visite. È una bella giornata, c’è il sole e mi siedo su un piccolo marciapiede del muro di cinta. Provo a immaginare come può essere la normalità qui, ma non ci riesco.

Arrivano gli altri. Entriamo nel gabbiotto e depositiamo le nostre cose in una cassettiera di ferro, ognuno in uno dei piccoli cassetti numerati. Sono vecchissimi, con i numeri dipinti a pennello giallo. Sembrano usciti da un film di Sergio Leone. La mia borsa ci sta appena dentro. Mi consegnano un pass che appendo alla camicia senza neppure guardare, e siamo dentro. La prima sensazione è quella di uno spazio grande, si vedono le finestre delle celle, con qualche camicia appesa ad asciugare fuori. Visto da terra, non sembra diverso da un ospedale. Ci guidano oltre il primo separatore, v’è una serie continua di cancelli e inferriate, la maggior parte dei quali però è aperta. Una mia compagna dice insolitamente aperta. Ferro e cemento. L’unica cosa in salute sembrano le inferriate di ferro vivo, ben colorate di blu. Il resto è decadente, trascurato, le pareti sono scrostate, ammuffite, e qua e là lasciano intravedere i pilastri di ferro interni. Un altro gabbiotto e un ulteriore controllo: «Chi siete? Venite per risolvere i problemi dei detenuti? E ai nostri problemi chi ci pensa?» – ripete due volte l’agente che registra il nostro passaggio, insieme a nomi e orario. Proseguiamo alla ricerca di un educatore che però si fa attendere. Così siamo autorizzati a permanere nel corridoio degli uffici, ed io a osservare.

Ah che bell’ ‘o café

Sembra di essere in Campania. Qua si parla molto meridionale, tutti salutano ad alta voce e dicono «Buongiorno». Mi ricorda quasi la cortesia «della strada» tipica del Sud, dove anche tra sconosciuti ancora ci si saluta. Gli agenti parlottano, non solo di lavoro pare. Non sembrano indaffaratissimi. Parlano a voce alta, talvolta sbottano. Riesco a sbirciare una stanza in cui siedono due comandanti, entrambe donne. Hanno un’etichetta di ceramica con il loro nome all’esterno, dipinta a mano con una bellezza ripugnante. Si assomigliano tra loro. Capelli neri lunghi raccolti in coda di cavallo, tratti meridionali forti, viso semplice, squadrato, truccate il minimo sindacale. Arriva l’educatrice, che ha gli stessi tratti somatici delle due comandanti, e un tono fermo da generale. La scruto dalla testa ai piedi. Ha scarpe gialle sportive, e veste in jeans e giacca corta.

Lei guarda dritto negli occhi, ma anche io la guardo allo stesso modo, quasi per dirle che il suo modo di fare mi sembra inappropriato. Dura lo spazio di qualche frase e la lasciamo per andare all’ufficio matricole, dove hanno tutti i registri dei detenuti. Entriamo, arriviamo al banco. Qui si lavora al computer e al telefono. Infatti i «Buongiorno» si rarefanno. Per la prima volta guardo il mio pass, appeso alla camicia. C’è scritto «visitatore autorizzato oltre il muro di cinta». Dopo un po’ di attesa si decidono a venire verso di noi. Chiediamo le informazioni che ci servono. Anche l’addetto all’ufficio matricole parla campano. Sono in quattro a lavorare in un ufficio abbastanza grande. Sbarre alle finestre, Vasco Rossi alla radio, telefono che suona costantemente. La prima cella mi sembra proprio questa. Alcuni cassetti hanno un rinforzo in ferro saldato, per consentire la chiusura a chiave. Sembrano fatti dal primo saldatore che passava lì fuori. Un tipo con pochi capelli biondi e lunghi impreca in silenzio davanti al computer, talvolta alzando le braccia al cielo. Sembra muto, scuote la testa.

Non vedo l’ora di uscire da lì, guardo la luce attraverso le sbarre della finestra. Entriamo finalmente nei “bracci”, così li avrei chiamati io, e invece si dice Sezioni. Ho notato che dall’ingresso gli spazi si sono progressivamente ridotti. La sensazione di apertura è sparita. Dopo l’ennesimo check-point ci lasciano entrare in uno stanzino, per aspettare il primo detenuto della giornata. Non ho ancora rapporti con i miei compagni, il che mi consente di stare in silenzio, allontanarmi da loro, osservare, pensare.

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Oltre il muro

Inizio a fissare la stanza. Cemento. Bianco al soffitto, giallo alle pareti, grigio colata al pavimento. Le pareti sono state ridipinte da poco, ma senza proteggere il pavimento che è pieno di schizzi di pittura ovunque. Dopo mi diranno i miei compagni che potrebbero essere stati gli stessi detenuti incaricati di dipingere. La stanza è vuota. Due piccole scrivanie e alcune sedie disposte come per una commissione ed un esaminato. Non mi siedo ancora. Due finestre danno la vista su un campo da calcio di terra e sterpaglia. L’erba selvatica richiama un po’ il prato di un campo autentico. Le porte sono in dimensioni reali, ma senza reti. Dentro una marea di uomini che giocano. Sembrano più di 22, quasi tutti stranieri, alcuni con magliette da calcio vere e proprie. C’è persino un signore piccolo e basso con la maglietta della nazionale italiana. Provo a immaginare cosa possa rappresentare quel momento per loro, l’ora d’aria passata a giocare a pallone di sabato mattina. Magari alcuni la scambiano per una partita vera così come facevo io da piccolo, ogni sabato pomeriggio, in quel campo di terra rossa vicino a casa. Allora penso che magari si dimenticano di essere in carcere. Così si preparano per bene con una bella maglietta del proprio idolo e della propria squadra del cuore, e quel pallone lo inseguono per davvero.

Intanto arriva il detenuto, da solo, senza manette. È pugliese, aria pulita, direi “innocente”, cioè di quelle persone che sembrano pure, semplici. Il suo sguardo è particolare, ha gli occhi grandi marroni, pochi capelli corti, ma in ordine. Un sole sorridente tatuato su un braccio, il nome della terza figlia sull’altro. Ha una condanna a dieci anni. Scherza: «Non sto proprio ‘nguaiato, dai…». Noi sorridiamo, gli prendiamo i dati e gli chiediamo i reati. Dice furto, rapina. Racconta che era agli arresti domiciliari quando è fuggito la prima volta. La seconda era in comunità e quando il suo avvocato gli fa visita per dirgli che lo arresteranno un’altra volta, sorride. Sorride, stringe la bocca e dice: «So’ scappato». Vuole andare a scontare la pena in un qualsiasi penitenziario pugliese, perché la famiglia «stanno troppo lontani».

Non gli importa tanto di quanto deve scontare, sa che non c’è alternativa, è sereno. Se necessario dice che nomina noi come avvocati. Gli spieghiamo che non è possibile, ma insiste. Gli chiediamo i documenti e chiede di poter tornare in cella a prenderli. Lo aspettiamo. Torna con una cartelletta verde, sembra un tipo molto ordinato. Quando la apre in cima ai documenti ci sono le foto delle figlie. Non appena ci cade lo sguardo sopra le afferra e ce le mostra orgoglioso. Sono belle, sia le bambine che le foto e non perché siamo in carcere ma perché lo sono davvero. Lo rassicuriamo e lo salutiamo.

Inconscio lombrosiano

Quando siamo fuori ci consultiamo e prendiamo atto che dagli atti risultano una sfilza di reati tra cui omicidio volontario. A quel punto muta la mia immagine su di lui. Non è più davanti a me, ma me lo rivedo così esile e piccolo, così delicato. Sarà che siamo tutti lombrosiani irreversibilmente ed anche inconsciamente. Comunque uccidere e rubare sono due cose molto diverse, penso. Passiamo ai detenuti in custodia cautelare. Il primo ad entrare è un uomo di 45 anni circa, molto alto e di carnagione scura. Pur essendo italiano, sembra egiziano o libanese. È stato arrestato per truffa, ma dice che non c’entrava niente, che lui era in Polonia. Adesso si è stancato e «vuole uscire».

Gli manca poco. Sembra quasi che la scelta dipenda da lui e basta. Infatti dice che era indeciso se uscire o restare dentro visto che fuori adesso non c’è lavoro, ma comunque si è stancato. Andrà dal fratello a Napoli che si è reso disponibile ad ospitarlo. Sorprende anche la preparazione di questo detenuto. Indica lui a noi una legge che realizza un “indultino”. Ci dice gli estremi esatti per sapere se rientra nel beneficio. Vuole sapere solo questo. Prima di andarsene ripete che si è stancato perché in sezione dovevano essere tutti italiani e qualche straniero, mentre invece si sono 10 italiani e 40 «marrocchini», e che ormai gli manca poco per imparare l’arabo. Lamenta la situazione come insostenibile senza però specificare ulteriormente le ragioni.

Resto con il dubbio che sia un po’ razzista, o magari gli rompono le scatole per davvero. Mi ha colpito la sua mano gigante ed incredibilmente pulita, tersa. Allora ripenso anche alla mano del detenuto pugliese. Anche lui aveva una mano tersa al tatto, come si fosse preparato a stringercela, ma ovviamente è solo una supposizione. Vediamo poi due immigrati, entrambi dentro per spaccio e con decreto di espulsione che li attende non appena metteranno piede fuori. Uno dice di essere perseguitato in Marocco dal governo attuale, l’altro dice che i genitori sono separati e lui non può tornare in Marocco. Entrambi rifiutano di tornare a casa una volta fuori dal carcere. Uno di loro, il perseguitato politico, dice: «Francia, Marocco, Italia,… io voglio vivere!». Non gli importa più nemmeno dove, ma che possa restare vivo almeno. Mentre aspettiamo guardo fuori dalla finestra.

Il gelo dentro

Tra le intersezioni di questo parallelepipedo formate dai “bracci” si intravede un po’ di prato verde, anche se tutto spontaneo, primaverile. Qualche piccione appollaiato sulla parte superiore delle finestre, qualche camicia fuori, appesa ad asciugare, un’agente di guardia sul “muro di cinta”. C’è il sole fuori, ma fa freddo qui dentro. È maggio, ma i detenuti dicono: «Questo è un frigo, in inverno si muore». L’ultimo che vediamo è un detenuto in infermeria, straniero, con invalidità superiore al 70% e diagnosi di disturbo bipolare. Anche la sua mano è tersa, impeccabile. Penso allora che la più sporca tra tutte le mani fosse la mia che non la lavavo dal giorno prima. Mi aspetto un pazzo e invece mi ritrovo dinanzi una persona cortese e cordiale. Mi procura una sedia, dato che ero rimasto in piedi. Gli vado incontro a prenderla perché mi scoccia essere servito. Vuole che gli troviamo una casa di cura per scontare parte della pena fuori dal penitenziario.
Usciamo. Ripassiamo dai vari check-point: saluti di buongiorno, firme sul foglio d’entrata e odore di cucinato. Sinceramente buono, sarei rimasto volentieri, anche perché stavo morendo di fame. Mentre usciamo per i lunghi corridoi delle sezioni ci imbattiamo in un gruppo di detenuti accompagnati da un agente. Vanno nella nostra stessa direzione. L’agente si ferma un attimo a leggere un foglio. Posizione eretta, gambe leggermente divaricate, disciplina, come quando giocavamo nella categoria “pulcini” del calcio a 11. Non appena l’agente si avvede della nostra presenza pronuncia una parola che non riesco a captare, ma sta di fatto che dopo averla proferita il gruppo si mette spontaneamente in fila sulla parete destra, sino a fermarsi. Attendono il nostro passaggio e poi si rimettono a camminare. Disciplina. Usciamo. Gli spazi riprendono spazio, non siamo ancora all’esterno del muro di cinta, ma la sensazione di chiusura è alle spalle. Fuori, giornata di sole e di caldo, almeno 5-6 gradi di differenza di temperatura.