Donald Sassoon è professore emerito di storia europea comparata al Queen Mary College, University of London. Il suo ultimo libro è Sintomi Morbosi, edito da Garzanti.

Dopo questa salubre arrampicata, per il governo comincia la salita…

Bisogna fare un accordo con i ventisette stati dell’Unione Europea entro la fine dell’anno. Quasi tutti sono d’accordo nel ritenere che per allora un accordo completo sia impossibile e se mai lo fosse sarà una serie di piccoli accordi. Quali saranno questi accordi non lo sa nessuno. Già sappiamo però che Boris Johnson li decreterà fantastici.

Quale pensa sarà l’indirizzo economico di questo governo? Modello Singapore, protezionismo trumpiano?

Sono due ipotesi talmente ridicole che mi fa persino male rispondere. Singapore ha 4,5 milioni di abitanti, noi sessantacinque milioni. L’economia di Singapore è completamente diversa da quella della Gran Bretagna. Londra potrebbe essere Singapore, se si staccasse dal resto del Regno Unito. Dopotutto ha massicciamente votato a favore di rimanere nell’Unione europea. Ma questa è pura fantasia. L’altra possibilità, che si possa fare come gli Stati Uniti, è altrettanto ridicola. Gli Stati Uniti sono un paese di 320 milioni di abitanti il cui import-export è minimo al confronto della Gran Bretagna, che però è di molto più inserita nel mercato mondiale e soprattutto in quello europeo. Dunque né l’una né l’altra via è percorribile, né lo è il modello tipo Norvegia, anche quello un paese piccolo con limitate possibilità di export. Bisognerà inventare qualcosa di nuovo e non continuamente pensare a quello che potrebbe essere un modello da imitare. Nella storia non ci sono quasi mai modelli da imitare. Ogni Paese va avanti bene o male a modo suo, di solito male.

Come si delinea il rapporto con Trump?

Uscendo dall’Unione Europea si parlava di un deal con gli Usa: a parte il fatto che nessun deal con gli Stati Uniti potrà compensare il 47% delle nostre esportazioni che vanno verso l’Unione europea; e comunque il deal con gli Stati Uniti diventa sempre più difficile per i continui battibecchi tra Washington e Londra. Il più notevole è quello sulla Huawei, ma viste le prese di posizione degli Stati Uniti in Medio Oriente sarebbe difficile per i conservatori spostarsi su posizioni filo-israeliane come quelle di Trump. Magari a novembre alla Casa Bianca salirà qualcuno normale: eppure mai – come diceva Barnum – sottostimare il cattivo gusto degli americani.

Ma lo stato convulso dell’Ue non è tale da giustificare la lungimiranza dei brexittieri?

Lo è. L’Unione Europea ha una serie di problemi. In quello con la Gran Bretagna l’interesse sarebbe fare un deal che non provochi troppi traumi, ma ciò incoraggerebbe gli euroscettici di tutta Europa; o si potrebbe cercare di “punire” la Gran Bretagna. Questo validerebbe invece le critiche all’Ue dei brexittieri. L’Unione ha dei problemi interni notevoli. I partiti tradizionali, quelli che hanno costruito l’Europa, quelli di centro sinistra, come la Spd, o il Partito Socialista in Francia, o i partiti conservatori “normali” come la Democrazia Cristiana in Germania e in Italia e i gollisti in Francia, sono tutti in crisi o spariti.

Adesso che ha vinto al Nord, Johnson dovrà dimostrare il suo “nuovo” interclassismo farlocco.

L’interclassismo conservatore è in realtà cosa vecchia, esiste dal diciannovesimo secolo è non l’ha inventato Boris Johnson. Il partito conservatore ha sempre avuto molti voti della classe operaia, che tra l’altro ormai è sempre di meno – ormai, se contiamo la classe operaia nel vecchio senso d’industria manifatturiera, sono all’11%: metà di quello che è in Italia. Bisogna anche pensare ai limiti cui Johnson dovrà fare fronte, i più importanti saranno dettati dagli accordi che farà con il resto dell’Unione europea. Quando si parla d’industria manifatturiera, o di quello che ne è rimasto in Gran Bretagna, saranno proprio gli operai del nord dell’Inghilterra a essere colpiti da Brexit. Se poi se la prenderanno con Brexit, daranno la colpa agli immigrati o a Bruxelles, è difficile saperlo, dipende da come i vari partiti si presenteranno.

Bisogna anche pensare a quello che succederà al Regno Unito nel suo complesso. Se il deal con l’Europa dovesse risultare particolarmente difficile, finirebbe per incoraggiare i nazionalisti scozzesi a spingere verso la secessione. E poi, l’Irlanda del Nord: ci potrebbe essere un rapprochement ancora più stretto tra repubblicani, cattolici e i gruppi protestanti. Che questo possa portare a un’eventuale unificazione anche lì non lo sappiamo, ma il fatto stesso che si possa discutere seriamente della fine del Regno Unito dimostra la gravità della crisi.

Cos’ha determinato la sconfitta di Corbyn?

La risposta non è semplice perché le cause della sconfitta sono molteplici. Da un lato c’è il tentennamento di Corbyn tra un secondo referendum e un’accettazione controvoglia di Brexit. Quasi tutti i collegi elettorali persi dal Labour avevano una maggioranza per Brexit e dunque si può dire che se Corbyn avesse fatto una campagna più filo-Brexit avrebbe forse perso altrettanto, alienandosi i voti del remain. L’altro fattore è senza dubbio che fin dall’inizio è stato osteggiato dalla stragrande maggioranza dei suoi deputati. In un paese come la Gran Bretagna è molto difficile vincere quando hai contro l’ottanta per cento dei tuoi deputati, anche se hai dalla tua parte una maggioranza schiacciante degli iscritti del tuo partito.

Per ridimensionare la sconfitta di Corbyn va detta un’altra cosa. Se a contare il numero dei deputati che ha ottenuto – dando a Boris Johnson una maggioranza di ottanta seggi – sembra una sconfitta schiacciante, la faccenda cambia guardando ai voti, cioè alla proporzione dell’elettorato ottenuta dallo stesso Johnson: appena l’1,2% in più del 2017, quando Theresa May non era riuscita neppure a ottenere una maggioranza assoluta in Parlamento. Il che vuol dire che questo sistema elettorale è talmente ridicolo che basta uno spostamento dell’1,2% per tramutare un governo di minoranza in un governo con una maggioranza schiacciante. Bisogna anche aggiungere un’altra cosa: i liberali sono andati su di quattro punti percentuale, ma hanno perso un seggio. Questo significa che c’è veramente una sfasatura tra l’appoggio popolare di cui si gode e il numero dei seggi conquistati. Un ultimo elemento: i nazionalisti scozzesi hanno stravinto in Scozia, fino a una decina di anni fa territorio Labour. Da tempo ormai il Labour non ha più la sua cinquantina di seggi scozzesi, perduti ormai forse per sempre. Sarà molto difficile in futuro per qualsiasi leader ottenere una maggioranza assoluta vincendo solo in Inghilterra, con il partito quasi assente in Irlanda del Nord, in Scozia e ora diminuito in Galles. Ma il declino dei laburisti è cominciato ben prima di Corbyn che nel dicembre del 2019 ha comunque ottenuto più voti di Ed Miliband nel 2015 e addirittura più voti di Gordon Brown nel 2010. In molti dei collegi elettorali persi dal Labour il declino del voto laburista precede quello di Corbyn. Naturalmente adesso è facile farne un capro espiatorio. Ma questo non giustifica l’inabilità del Labour di considerare le cause più profonde della propria sconfitta.

È inevitabile il riposizionamento centrista?

C’è senz’altro una chance di riposizionamento centrista. Anche se dovesse vincere Rebecca Long Bailey, la candidata corbynista – o vince lei o vince Keir Starmer – non credo gli altri abbiano molte possibilità. Lei si sposterà verso il centro come hanno fatto tutti i leader laburisti dal ‘45 in poi, compreso Corbyn, che si era spostato verso il centro soprattutto in politica estera. Ma è difficile dire che tipo di centro sarà, anche perché Boris Johnson stesso può darsi che si sposti a sinistra semplicemente per mantenere i collegi elettorali del Nord che ha vinto, e dovrà spendere un bel po’ di soldi per il Nord. Ci sarà un ritorno al centro, un centro che si è spostato a sinistra, diciamo così, da quello dei tempi della signora Thatcher. Semmai queste elezioni hanno decretato la difficoltà di ritornare sia ai tempi della Thatcher che a quelli del New Labour.