All’aeroporto di Kabul si continua a giocare una drammatica partita politica e umanitaria, dopo 6 giorni dalla presa del potere dei Talebani e con le truppe americane ancora nel Paese. L’aeroporto è una trappola per i civili, anziché una via di fuga sicura.

Di fronte al caos di questi giorni, il presidente Joe Biden torna a parlare pubblicamente dell’Afghanistan, impegnandosi per l’evacuazione dei connazionali, degli alleati e del personale a rischio. Ma dovrà passare per il via libera dei Talebani, che controllano il perimetro dell’aeroporto e quasi l’intero Paese. Come riconosce Vladimir Putin, che ieri in una conferenza stampa al Cremlino con Angela Merkel ha suggerito di fare i conti con la realtà dei fatti: i Talebani sono destinati a governare. Meglio trovare un modo per cooperare. Merkel sostiene che il primo impegno è evacuare il personale afghano che ha lavorato con la Nato. Il Qatar lamenta troppi arrivi e la Germania mette a disposizione la base militare di Ramstein per chi verrà evacuato.

DESTINAZIONE STATI UNITI. Lontano dall’Afghanistan e dai Talebani, che tra Kandahar e Kabul continuano le consultazioni per la formazione di un nuovo governo. Inclusivo, dicono, perché questa volta è un’altra storia. Così assicurano. Ma le donne afghane non ci credono e scendono per strada. Poche, ma coraggiose: vogliamo far parte del governo, dicono a Kabul. La società scalpita, non teme. Sa che in queste ore frenetiche, di debacle diplomatica, di cancellerie senza argomenti e senza leve di convincimento, a contare sono i civili, la società. Quella afghana è pronta a farsi sentire. A non piegare la testa.

Più che i reduci del Panjshir, più che il figlio del comandante Masud, più che il figlio del maresciallo Fahim, più che l’ex vicepresidente Amrullah Saleh che si dichiara ora «presidente legittimo», i Talebani dovranno temere una società demograficamente giovane, attiva, soprattutto nelle città. La vera partita è il conflitto sociale, più che quello militare con i panjshirì che rilasciano interviste e mostrano le armi per ottenere di più nel futuro governo, non per combattere veramente una guerra che gli afghani non vogliono più vedere.

PER ORA, ALL’AEROPORTO DI KABUL si condensa il fallimento di venti anni di guerra. Sono almeno 18.000 le persone evacuate dall’Afghanistan dal 15 agosto, secondo un funzionario della Nato. Da allora l’aeroporto della capitale, intitolato all’ex presidente Hamid Karzai che in questi giorni negozia con gli studenti coranici, è preso d’assalto. In mancanza di chiari meccanismi di evacuazione, con i canali diplomatici in fibrillazione, informazioni confuse e la pressione di migliaia di persone intorno alle mura dell’aeroporto, molti afghani che pure avrebbero le carte in regola per farlo non riescono a lasciare il Paese. Altri, che pure in questi anni sono stati il fiore all’occhiello delle ambasciate straniere perché rappresentavano il volo democratico della società civile, non sono stati inclusi nelle liste delle persone a rischio.

Mancano le informazioni più essenziali. Cosa fare, a chi chiedere, chi è in carica. A proteggere gli ingressi dell’aeroporto ci sono le truppe statunitensi o le unità dell’intelligence dei Talebani. Non vengono risparmiate le maniere forti. Vengono usate contro tutti. Con particolare accanimento, secondo alcuni resoconti, contro i membri della comunità hazara, la minoranza sciita già perseguitata al tempo dell’Emirato islamico, il governo dei Talebani rovesciato nel 2001, e più di recente obiettivo della Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico che punta a capitalizzare la difficile transizione in corso nel Paese, soffiando sul fuoco del settarismo.

DI FRONTE AL CAOS dell’aeroporto, il comunicato sull’Afghanistan rilasciato ieri dai ministri degli Esteri della Nato suona impotente. Arriva dopo una sconfitta militare epocale, nel pieno di una gravissima crisi umanitaria che riguarda metà della popolazione. «Il nostro compito immediato è continuare l’evacuazione sicura dei nostri cittadini» e degli afghani a rischio, «in particolare quelli che hanno contribuito al nostro sforzo». Sono quelli più a rischio di rappresaglie secondo molte testimonianze e secondo il Norwegian Center for Global Analyses. La Nato annuncia poi la fine di ogni sostegno alle istituzioni afghane e, responsabile di migliaia di vittime civili afghane, chiede che il prossimo governo sia inclusivo, tuteli donne e minoranze e rispetti i diritti fondamentali.

Ma nella comunità degli hazara c’è forte preoccupazione. Gli hazara conoscono per esperienza diretta le brutalità dei Talebani. Non si tratta solo di abusi passati. Un rapporto reso pubblico due giorni fa da Amnesty International spiega che «i Talebani hanno massacrato nove uomini di etnia hazara dopo aver preso il controllo della provincia di Ghazni, lo scorso mese». Tra loro c’era Sayed Abdul Hakim, 40 anni, prelevato da casa, picchiato ferocemente, ucciso. Il corpo gettato per strada. O Jaffar Rahimi, 63 anni, accusato di aver lavorato per il governo perché nel suo portafogli erano stati trovati dei soldi. «I Talebani lo hanno strangolato con la sua stessa sciarpa».

SECONDO AMNESTY «la brutalità a sangue freddo di questi omicidi», avvenuti nel villaggio di Mundarakht, nel distretto di Malistan, è «la prova che le minoranze etniche e religiose rimangono particolarmente a rischio sotto il governo dei Talebani». Ma i Talebani dicono che si tratta di «danni collaterali», come spiegato dal portavoce Zabihullah Mujahid. Ora che la guerra è finita la violenza non è più necessaria, giura. A Kabul i Talebani hanno preso in carico la sicurezza di alcuni santuari sciiti, dove i fedeli hanno potuto pregare. E si sono fatti fotografare con alcuni esponenti della comunità di Sikh e Hindu. Rilasciano dichiarazioni in cui sostengono che sì, qualche abuso, qualche ricerca casa per casa c’è stata, ma si tratta di sbagli dei militanti meno avveduti. Errori inevitabili in questa delicata fase di transizione. Una volta che il governo verrà ufficialmente inaugurato, non ci sarà più nessun abuso. Così giurano.