Messo fronte all’evidenza Donald Trump riconosce a mezza bocca che il giornalista saudita Jamal Khashoggi è stato assassinato in Turchia e che tutti gli indizi sui responsabili della sua morte portano a un unico indirizzo, quello di Mohammed bin Salman, il potente giovane erede al trono saudita che il presidente americano tratta quasi come un amico di famiglia. D’altronde con quello che sta venendo fuori dalle indagini è impossibile per Trump fare il garantista e ad assicurare la “presunzione di innocenza” agli alleati sauditi. Ora il tycoon, sotto pressione negli Usa dove il brutale omicidio del giornalista dissidente, editorialista del Washington Post, è sempre sulle prime pagine e se ne discute stanze del Congresso, minaccia «conseguenze molto gravi» se sarà provato il coinvolgimento della casa reale saudita. Il caso inoltre pesa sulle imminenti elezioni mid-term.

Sulla gravità delle «conseguenze» i dubbi restano sono forti. Sul tavolo ci sono contratti per molte decine di miliardi di dollari per l’acquisto di armi americane da parte di Riyadh. E i Saud con l’annuncio anche solo di una leggera riduzione delle loro esportazioni petrolifere in un attimo farebbero salire alle stelle il prezzo del greggio. Più di un analista prevede che le eventuali sanzioni Usa andranno poco oltre la rinuncia del Segretario al Tesoro Steven Mnuchin a partecipare martedì alla “Davos del Deserto”, la mega conferenza per gli investimenti in Arabia saudita voluta da Mohammed bin Salman, decimata dalle defezioni. Secondo il New York Times su richiesta americana Riyadh sarebbe pronta a sacrificare un alto ufficiale di intelligente, il generale Ahmed al-Assiri, uomo di punta dei servizi e consigliere della Corona. Butta acqua sul fuoco il Segretario di stato Mike Pompeo: da un lato sostiene che l’erede al trono saudita sta mettendo a rischio la sua credibilità come futuro leader e dall’altro afferma che i sauditi fanno ancora in tempo a presentare i risultati di una indagine seria sulla morte di Khashoggi. In poche parole esistono i margini per trovare una soluzione “accettabile” per tutti.

Attutire i colpi che arriveranno dalla Turchia in ogni caso non sarà facile per sauditi e americani. Spinta dalla rivalità con Riyadh, Ankara si prepara a confermare, nero su bianco, i sospetti di tutti. «Abbiamo alcune informazioni e prove. Condivideremo con tutto il mondo i risultati dell’indagine», annunciava ieri il ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, senza fornire alcuna tempistica sulla fine dell’inchiesta. Ma la conclusione è prossima. Cavusoglu ha precisato che né il segretario di Stato Pompeo, durante la sua visita, né nessun altro funzionario americano ha ricevuto dalla Turchia registrazioni audio dell’omicidio di Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul. Gli americani comunque sanno già tutto, grazie al lavoro della Cia. Ieri i tecnici della polizia scientifica turca hanno ispezionato, alla ricerca di tracce di sangue e dna, per circa tre ore il minivan nero in dotazione al consolato saudita in cui il corpo del giornalista saudita sarebbe stato trasportato alla vicina residenza del console dopo la probabile uccisione in consolato. Il mezzo sarebbe giunto dal console alle 15:09 del 2 ottobre, cioè poco meno di due ore dopo l’ingresso del reporter in consolato, con a bordo Khashoggi. Con ogni probabilità già morto a causa di un pesante interrogatorio «andato storto» condotto da uomini dei servizi sauditi, tra i quali personaggi molto vicini a Mohammed bin Salman, come mostrano i filmati delle telecamere di sorveglianza intorno al consolato saudita e nell’aeroporto di Istanbul.