Da un lato i sovranisti patriottici, dall’altro gli internazionalisti no borders; senza possibilità di dialogo. Un conflitto irriducibile che porterà altre separazioni. Così, via via, il pensiero critico si scompone, sino a scomparire, inciampando su se stesso.

Presi dal furore polemico – o dalla paura del vuoto – non ci si avvede dei propri limiti che sono esattamente quelli che gli uni contrappongono agli altri. I sovranisti rischiano di smarrire la dimensione globale, gli internazionalisti dimenticano quella locale. «Pensare globalmente, agire localmente» non è solo una parola d’ordine del passato, potrebbe rappresentare anche una chiara indicazione per ricomporre lo specchio infranto della sinistra critica. A condizione però che non ci si accontenti della sloganistica.

I sovranisti, anzitutto, dovrebbero riflettere sull’uso delle parole, che non è mai neutrale. Perché adottare un linguaggio carico di ambiguità? Il “sovranismo” ha – persino sul piano etimologico – una connaturale e storica propensione identitaria. Evoca il “sovrano”, la chiusura comunitarista, la difesa di invalicabili confini. Non a caso è il terreno privilegiato della destra culturale e politica. Vero è che per distinguersi da questa visione il “sovranismo” di sinistra si coniuga con la Costituzione repubblicana. Bene, ma forse non basta, perché bisognerebbe aggiungere che la sovranità costituzionale non tanto fa riferimento ad un popolo indistinto, quanto a precisi valori di civiltà che sono inviolabili, che si impongono a qualunque maggioranza politica che volesse calpestarli, che devono prevalere anche davanti al popolo.

Un popolo che in costituzione non è un’informe moltitudine ribelle, non è titolare permanete di un potere assoluto, non è libero di far tutto né ha sempre ragione. La sua sovranità, infatti, è espressamente assoggettata alle forme e ai limiti della costituzione. Se si vuole allora prendere sul serio la sovranità costituzionale non ci si può esimere dal evidenziare che prima della retorica populista vengono i diritti fondamentali, l’eguale dignità sociale, il pieno rispetto degli individui e delle loro diversità, la necessità di operare affinché vengano rimossi gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo di ciascuno e di tutti.

Non sono parole vuote quelle della Costituzione, esse impongono un dover essere, un’etica costituzionale che si rivolge a chiunque viva entro i nostri territori, quale che sia la sua provenienza, senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

È qui che il sovranismo di sinistra incontra la globalizzazione, si deve confrontare con le logiche internazionaliste, contrapponendosi agli egoismi nazionalisti. Il confine – questo sì incolmabile – che separa le rivendicazioni xenofobe di chi ritiene si possa privilegiare una nazione (prima gli italiani) dalla sovranità costituzionale è segnato dal rispetto all’universalismo dei diritti fondamentali.

Nessuno dovrebbe sfuggire a questo internazionalismo, di natura propriamente costituzionale. Sbaglio se dico che non sono pochi a sinistra coloro che evitano il confronto sulle criticità degli egoismi nazionali, preferendo porsi in maggiore sintonia con il malessere sociale che ha portato in tanti ad abbandonare le logiche del solidarismo sociale? Ma compito della sinistra non è quello di seguire il popolo (limitandosi ad interpretare il mondo), bensì quello di guidarlo verso l’emancipazione sociale e politica, cambiando lo stato di cose presenti.

Ciò vuol dire che ci si può limitare ad abbattere i confini, come vorrebbe parte dell’altra sinistra, quella no borders? L’ingenuità è palese. Si tratterebbe di una rinuncia ad ogni ruolo dello Stato – ma con esso anche degli altri soggetti sovranazionali – e di una caduta nello stato di natura. In questa ipotesi non potrebbe che finire per prevalere la legge del più forte, senza rispetto per i diritti di nessuno. In fondo una prospettiva che può andar bene alla destra muscolare, che non disprezza la possibilità di difendersi da sé, senza – o anche contro – lo Stato.

Un nuovo internazionalismo radicale, invece, dovrebbe pretendere di governare i flussi, in nome dei valori di eguaglianza e solidarietà che sin dall’origine dei movimenti cooperativi e sindacali hanno fatto la storia della sinistra mondiale. Anche in questo caso mi chiedo se sia errata l’impressione che sia diffusa una volontà di rigetto di ogni politica pubblica da parte di alcuni settori della sinistra cosmopolitica, che preferiscono un’apertura senza tetto né legge.