Quando sia iniziato e quando sia finito il 4 Maggio 1919 è tuttora un mistero e forse è giusto che resti tale. I confini temporali incerti di questo evento fondativo della storia moderna cinese da circa un ventennio prestano il fianco agli attacchi e alle insinuazioni dei sinologi conservatori, ansiosi di dimostrare che in realtà il 4 Maggio non è mai avvenuto. Sarebbe un’invenzione successiva, un falso storico. Il fatto, secondo costoro, non sussiste. E invece.

Tradizionalmente, si attribuisce a Chen Duxiu ed al suo «Appello ai Giovani», comparso nel 1915 sul numero inaugurale della rivista Xin Qingnian («Gioventù Nuova»), il punto di avvio di quel processo destinato a sovvertire, in modo imprevisto e irreversibile, il corso del XX secolo in Cina. «Siate indipendenti e non servili» – recitava il primo dei sei punti dell’«Appello» – e a seguire: «siate progressisti e non conservatori»; «attaccate, non ritiratevi»; «siate cosmopoliti, non isolazionisti»; «siate utilitaristi, non formalisti»; «basatevi sulla scienza, non sull’immaginazione». Il testo mirava a spronare e consolare una generazione rimasta orfana di ogni riferimento politico ed esistenziale, in crisi profonda, la quale crebbe sulle macerie del Celeste Impero, caduto nel 1911 a seguito di una rivoluzione gattopardiana che cambiò tutto senza cambiare assolutamente nulla, in cinese detta Rivoluzione Xinhai.

Al crollo dell’ultima dinastia Qing fu difatti fondata una repubblica la cui presidenza rapidamente scivolò dalle mani del rivoluzionario Sun Yat-sen per finire in quelle del dittatore Yuan Shikai. Yuan Shikai, dopo aver tentato di restaurare la monarchia, morirà nel 1916, consegnando così la nazione ai warlords, alle cricche militari dei signori della guerra. Fra gli strascichi coloniali delle guerre dell’oppio e dei trattati ineguali del XIX secolo e la modernità abortita della Rivoluzione Xinhai di inizio ‘900, sono il vuoto, il caos, l’azzeramento totale a dominare la storia e soprattutto il vissuto soggettivo di milioni di cinesi.

Ed è da questo vuoto che dovremmo partire, da questo grado zero della coscienza collettiva, anziché dalla scintilla del testo di Chen Duxiu apparso su «Gioventù Nuova», la quale già preannuncia l’incendio del 4 Maggio. Giacché è un vuoto che ad un secolo esatto di distanza ancora ci riguarda e ci interpella.

Corre l’anno 1917. In un albergo di Shaoxing il trentaseienne Zhou Shuren, che ancora non ha adottato il suo nom de plume, Lu Xun, ha preso in affitto tre stanze che danno su un piccolo giardino. Lì, al centro del prato si accampa maestosa una sofora, ove pare che anni addietro si fosse impiccata una donna. Sophora japonica, del resto, in cinese si scrive aggiungendo al radicale di albero il carattere di demone o di spettro.

All’ombra della sua fitta chioma Zhou Shuren si ritira a ricopiare antiche iscrizioni in lingua classica, dimentico di se stesso e del mondo: «cercavo di anestetizzare la mia anima, uniformandomi allo spirito dei tempi, o rifugiandomi nel passato», scriverà poi, una volta divenuto Lu Xun, nella «Prefazione a ‘Chiamata alle Armi’».

L’anestesia serve a rendersi sordo all’eco della propria solitudine, a non udire la voce dell’Ombra («L’Addio dell’Ombra» di «Erbe Selvatiche»), a fuggire dal «deserto» che di giorno in giorno cresceva, «avvinghiandosi all’anima come un serpente velenoso». Quando ancora era uno studente straniero in Giappone, Zhou Shuren/Lu Xun aveva deciso di abbandonare lo studio della medicina per provare a curare le menti dei cinesi, e non più i corpi, tramite la letteratura.

Era un sogno comune, molto in voga a quei tempi: nel 1902, ad esempio, Liang Qichao insieme ad altri riformisti aveva fondato una rivista, «Romanzi Nuovi», poiché secondo lui solo la narrativa poteva trasformare la coscienza cinese, risvegliandone il bisogno di politica, affinché gli inermi sudditi di un impero ormai in rovina divenissero dei cittadini attivi e consapevoli, degni di una nazione moderna. Per fare la Cina, insomma, bisognava prima fare i cinesi.
E a ben vedere, era il vecchio, forse imperituro sogno illuminista del ceto intellettuale di ogni tempo, che sempre si sente chiamato a cambiare il mondo. Lu Xun – e il 4 Maggio con lui – nascono in reazione a questo sogno, contro questa pia illusione.

Ancora in Giappone, Zhou Shuren crea la rivista «Vita Nuova», che però non desta né entusiasmi, né critiche: semplicemente, passa del tutto inosservata. È tale silenzio che andrà ad alimentare il demone depressivo, il «serpente velenoso», anche dopo il ritorno in patria. Passano gli anni, sotto la sofora. (Siamo forse anche noi seduti sotto la sofora? Ricopiamo iscrizioni? E chi legge le nostre riviste?) Passano le primavere e gli autunni, finché – ci narra la «Prefazione a ‘Chiamata alle Armi» – non giunge, deus ex machina, Qian Xuantong della redazione di «Gioventù Nuova», il quale chiederà a Lu Xun di scrivere per loro.

E Lu Xun gli risponde con la celebre metafora in cui paragona la Cina a una casa di ferro, «senza finestre, praticamente indistruttibile, con tanta gente addormentata sul punto di morire asfissiata. Tu sai che la morte li coglierà nel sonno e quindi non conosceranno le pene dell’agonia. Ora, se tu, con le tue grida, svegli quelli dal sonno più leggero e costringi questi sfortunati a soffrire il tormento di una morte inevitabile, credi di rendere loro un servigio?»

La domanda, ovviamente retorica, sottintende una risposta negativa. Eppure Lu Xun scriverà per «Gioventù Nuova»: nel 1918 esce quel «Diario di un Pazzo», il primo romanzo in lingua parlata, che inagura la letteratura cinese moderna e si chiude con un grido acuto, potente, capace di risvegliare la Cina muta del tempo: «Salvate i bambini!» Lu Xun grida: d’altronde, sente che non può davvero «uccidere la speranza, perché la speranza fa parte del futuro».

Al richiamo di Lu Xun, l’intellettuale che si fa tale nel momento stesso in cui nega questa sua identità, risponderanno, esattamente un anno dopo, il 4 Maggio 1919, gli studenti che negano di essere semplici studenti, i quali fanno della «cultura» il terreno di una nuova pratica sociale, sino ad allora sconosciuta, definibile tuttora, forse, come «politica» – se il termine non ci risulta troppo vago.

Giacché in quel 1919, la «politica» propriamente detta era rappresentata dai signori della guerra e dalla diplomazia segreta che, mentre veniva stilato il trattato di pace di Versailles alla fine della prima guerra mondiale, non mosse un dito di fronte alla proposta delle potenze occidentali di cedere al Giappone, al «gendarme d’Oriente» pronto a contrastare i comunisti russi, i vecchi diritti territoriali tedeschi sullo Shandong. La politica ufficiale era dunque la negazione della politica in senso alto, come bene collettivo. E allora agli studenti (stanchi del puro studio) ed agli intellettuali (nauseati dal proprio ruolo, dall’impotenza di quel ruolo) non resta che la negazione della negazione.

La speranza, scrive Lu Xun, non esiste in se stessa, bensì si dà come rifiuto della disperazione. Lu Xun non rispolvera il sogno illuminista dell’uomo colto che con il suo sapere converte e guida le masse, dal momento che sa che quel sogno è solo un miraggio; tuttavia, come poi ripeterà in «Erbe Selvatiche», se la speranza posta a priori altro non è che una «abietta prostituta» pronta a offrire a chiunque l’illusione di un amore esclusivo, la disperazione, quando è oggetto di una fede altrettanto aprioristica, categorica e in definitiva cieca, è a sua volta illusoria. La sostanza del nichilismo è cartapesta, né più né meno del suo contrario.

Il 4 Maggio nel suo punto più alto coincide con questa opposizione attiva alla rinuncia, è un ‘no’ al ‘no’. Così come «Il Viandante» di Lu Xun coincide con Beckett: il deserto è ovunque, io ho sete, è buio, non ci vedo, non respiro – eppure devo andare avanti, non posso andare avanti, andrò avanti.