In un mondo senza utopia, «loco a gentile, / ad innocente opra non v’è: non resta /che far torto o patirlo»: resta però, e largo, lo spazio per la guerra. Uno spazio oggi meno visibile, rimosso dall’esperienza diretta dei più, almeno in Europa. Per gli antichi, invece, la centralità della guerra era indiscussa: si poteva sognare un mondo pacificato, ma combattere era comune e lecito. Oggi, la distanza dalla guerra vissuta e il pacifismo hanno paradossalmente riavvicinato al tema, senza retorica, ideologismi o frettolose modernizzazioni. E si torna a studiare la guerra degli antichi, guardando ai soldati oltre che ai generali, integrando il fattore militare nella società e la politica. Nel nuovo libro di Marco Bettalli Un mondo di ferro La guerra nell’Antichità (Laterza «i Robinson / Letture», pp. 528, € 24,00) il centro è la Grecia, fino alla conquista romana: periodizzazione non consueta ma assai funzionale. Il tema è discusso con stile vivo e leggibile. Lo sguardo unitario è esito di una lunga ricerca, che discute i grandi temi con attenzione ai fatti concreti e ai problemi della critica. Lo prova l’ampia e ragionata bibliografia: un vero strumento di lavoro, che indica che cosa si pensa oggi sulla guerra antica, e segnala anzitutto strumenti accessibili al lettore italiano (altro che la sciatta prassi delle «letture aggiuntive», pensate per un pubblico di altra lingua e riprese tal quali in opere tradotte).
Con ampio sguardo, il libro affronta combattimenti omerici, valorosi opliti o temibili falangi; ragiona di strutture ideologiche e valori, e delle loro trasformazioni; esamina il rapporto tra guerra e economia o religione; riflette sull’esperienza e sui modi in cui gli antichi pensarono di poter «insegnare» la guerra; illustra l’importanza della memoria, nella differente prospettiva di testimoni, storici e comunità. Sono chiaramente illustrate le fondamentali opzioni: tra il modello «egualitario» della schiera anonima e il grande comandante; tra il fante e il cavaliere; tra il cittadino-soldato e il mercenario; tra la guerra «corretta» e le «guerriglie». La personalità dei grandi capi, certo un carattere non «democratico», valorizzava però la competenza tecnica. Il tema, ben visibile nel mondo ellenistico, era presente anche prima, quando la contiguità della guerra con la politica faceva prevalere il dovere del cittadino sulla professionalità dei combattenti: in Atene, come Bettalli sottolinea, il comando annuale e frazionato e lo strapotere dell’assemblea popolare resero insicuri i comandanti, determinando una strutturale debolezza, pur nei decenni della grande potenza.

Importanza degli stratagemmi
A causa della passione dei militari per le battaglie campali e le ferite «tutte qui, nel petto», la tradizione ha attribuito minor dignità ai soldati «leggeri» o diversamente armati. Ma il confronto tra i poco addestrati cittadini-soldati e i professionisti fu spesso a vantaggio dei secondi: persino i ben formati opliti spartani ebbero difficoltà davanti ai fanti leggeri di Ificrate, con altri armamenti e altri modelli. Vi sono elementi sovra-rappresentati nella visione degli antichi: essi preferirono il modello di Achille a quello di Odisseo, e guardarono con sospetto le «astuzie dell’intelligenza» e pure le forme di scontro asimmetrico, ossia la guerriglia (che è prassi scorretta, quando la praticano gli altri). Ambivalente lo sguardo anche sugli stratagemmi, che pure avevano importanza grandissima soprattutto nella soluzione degli assedi. Verso i mercenari si è costruito un rigetto secolare, che cumula le crisi degli eserciti ellenistici e le sconfitte di Cartagine con le analisi di Machiavelli: di fatto, già nell’età di Senofonte «il raffronto con i soldati dilettanti delle poleis» appariva in termini di efficienza «tutto a favore dei mercenari».
E poi altri temi ancora: il peso della demografia nell’evoluzione dell’arruolamento, o la rara capacità di «imparare» dall’esperienza per innovare le proprie tecniche e tattiche, o la tecnologia, vistosa almeno dall’età ellenistica. All’impressionante descrizione di una macchina costruita da Demetrio Poliorcete corrisponde la precisione esemplare con cui Cesare illustra una torre d’assedio impiegata a Marsiglia.
Vi sono poi alcuni «casi di studio»: si ragiona del modello spartano, forte ma incapace di divenire un «impero»; del mito delle guerre persiane, della guerra tra Atene e Sparta, tecnicamente priva di battaglie campali ma ricca di esperienze diverse (tra cui gli assedi). Poi si incontrano figure di grandi generali: e in tale quadro Annibale, tecnicamente uno sconfitto, può avere più importanza di Alessandro, invitto.
Il libro richiama l’opzione tra due idee della grecità (una «misurata, mite e aliena dalla violenza» e una conflittuale, ricca di gesti divisivi e fasi cruente), a favore della seconda. Impossibile illudersi che la Grecia antica fosse, come troppo spesso oggi usa, un luogo per incantati «stupori» pseudo-archeologici, uno scenario per guerre da videogames, o un polveroso e pedante museo di elmi, pelte e sarisse. Di Roma si parla quando lo richiedono la contiguità cronologica (fase arcaica e repubblicana) o il naturale confronto. Confronto di «classi dirigenti» (coesa quella romana, con evidenti vantaggi riconosciuti già dagli antichi), o di tecniche. Lo sviluppo della legione manipolare ebbe a che fare con l’esigenza delle guerre in Italia (non sempre vittoriose), ma al centro fu poi il problema, già discusso da Polibio, della schiacciante superiorità romana nell’età delle conquiste rispetto a tutti i competitor mediterranei.

Guerre nell’Italia antica
Un sostanzioso complemento al Mondo di ferro viene da una raccolta di saggi, curata dallo stesso Bettalli e da Giovanni Brizzi: Guerre ed eserciti nell’antichità (il Mulino «Biblioteca storica», pp. 504, € 28,00). Il libro apre una serie diretta da Nicola Labanca dedicata alla guerre in Italia (alle prese quindi con l’idea che Les italiens, ne se battent pas…). Gli spazi sono equamente distribuiti fra Grecia e Roma, in sequenza cronologica fino alla tarda antichità. Il taglio è più dotto: i capitoli sono opera di vari studiosi, talora meno efficaci nella scrittura e con tratti più tecnici (si legge parecchio latino!). Rispetto al volume laterziano di Bettalli, vi è per la sezione greca qualche inevitabile sovrapposizione, ma l’impegno a eliminare le deformazioni venute dalle idées reçues è sempre salutare (per esempio: oplitismo, guerra «corretta» versus guerra «dei barbari», mondo spartano, svolta macedone, ruolo della «pirateria», importanza della guerra navale, della cavalleria).
La sezione romana è preceduta da un saggio di Brizzi, unpretentious nel titolo («Romana minima») ma importante per il taglio «trasversale»: quasi un pendant al libro di Bettalli. Vi si presentano le coordinate generali delle guerre nell’Italia antica. Dopo le origini laziali e le dure lotte contro i Sanniti, la lunga serie delle guerre puniche fu evento strutturante, per i timori che suscitò nella classe dirigente: ne derivò anche il problema dell’integrazione degli italici. Giova l’attenzione ai temi geografici: ad esempio, la differenza tra l’Italia «tirrenica», aperta ai contatti, e quella «appenninica» che si integrò in Roma, dopo dure vicende, solo nel I secolo a.C. Spazio trovano le guerre civili, più volte combattute in Italia: tutti ricordano il passaggio del Rubicone, ma il sacco di Cremona nel 69 d.C., durante l’anno dei quattro imperatori, fu ben più istruttivo e drammatico. Oltre al solido approccio storico-sociale, Brizzi ricorre anche a categorie astratte, opponendo il furor del guerriero alla fides del soldato romano, vincolato al rispetto di valori comuni e formato alla disciplina, dal velite al generale.
Alle origini di Roma ci furono duelli e guerre per bande: la «macchina da guerra» si sviluppò assai più tardi, e per modelli esterni, ma la si credette esistita da sempre. Un mito che i moderni hanno esaltato, immaginando una strutturale «insaziabilità di dominio»: premiata dalla vittoria, «che schiava di Roma / Iddio la creò». Si arriva poi a ragionare sulla trasformazione (in parte degenerazione) dell’esercito in età imperiale, con i diversi destini dell’Oriente e dell’Occidente. Alla base, un mondo divenuto incapace di dare risposta a istanze provenienti «dal basso». Può servirci ricordarlo?