Quando, al principio del XIV secolo, la curia pontificia si trasferì, dopo un periodo di ‘nomadismo’, da Roma ad Avignone, la città provenzale assurse a punto nodale nelle vicende politico-culturali del tardo Medioevo. Famoso è, ad esempio, il caso di Francesco Petrarca, che tra Avignone e Valchiusa diede vita ad alcune delle sue opere. Anche gli artisti iniziarono a migrare verso «l’empia Babilonia» dove «fanciulle e vecchi vanno trescando e Belzebu in mezzo co’ mantici e col foco» (sono versi di Petrarca): basterà ricordare il caso di Simone Martini, che abbandona la sua Siena; o quello di Matteo Giovannetti – al quale Enrico Castelnuovo, nel 1962, dedicò quel prodigioso e ricchissimo libro che resta Un pittore italiano alla corte di Avignone (Einaudi 1962, 1991). Un gran viavai di uomini, merci e idee, insomma, che fece di Avignone uno dei cuori pulsanti di quel momento.
Tra coloro che la raggiunsero vi fu anche un giovane uomo di Pavia, proveniente da una famiglia di artigiani, fuggito precipitosamente dalla sua città dopo i torbidi che avevano rovesciato il partito guelfo al governo, nel 1315: si chiamava Opizzino de Canistris. Una ‘vita agra’, quella di Opizzino, per anni costretto all’estenuante attesa di una prebenda da parte del Papa, ridotto in povertà dopo la capitolazione della parte guelfa, assediato da una causa che si trascina e che gli provoca diverse ansie, ma della quale poco sappiamo in dettaglio. Quando finalmente, nel 1331, giunge, da parte di Giovanni XXII, la tanto attesa ricompensa, Opizzino entra a far parte di uno degli uffici della curia, la Penitenzieria, in qualità di scriptor, cioè come scrivano addetto alla ricopiatura degli atti. Per attendere a questo compito non era richiesta una particolare formazione come, invece, era necessario per i cosiddetti penitenzieri minori – cioè gli aiutanti del cardinale responsabile di tutto quanto l’ufficio –, che dovevano almeno sapersi orientare nel diritto canonico e nella teologia.
Per riuscire a ottenere questo impiego Opizzino aveva composto due trattati, tra 1329 e 1330, dedicati l’uno alla povertà di Cristo e l’altro a confutare le teorie che volevano sostenere la preminenza spirituale dell’Impero. «Amo ed esca per pescare un pesce», come sono stati efficacemente definiti da Daniela Rando. Poi arriva il marzo 1334: Opizzino è vittima di una malattia che lo lascia «come morto». Si riprenderà solamente molti mesi dopo, rimanendo «muto e con la mano destra quasi fuori uso», e riportando gravi perdite di memoria. Da quel momento per Opizzino inizia una nuova vita, s’inaugura una nuova ‘nascita’.
Risalgono agli anni successivi i due codici vaticani che per la maggior parte raccolgono le note tavole e i disegni di questo inquieto prete del Trecento. Il Palatino Latino 1993 e il Vaticano Latino 6435 ci hanno tramandato, infatti, uno straordinario corpus grafico nel quale parole e immagini concorrono a definire il mondo e l’orizzonte di Opizzino. Molte delle cose che sappiamo su di lui sono contenute in una delle tavole del Palatino 1993: una grande autobiografia figurata, dove sono registrati gli eventi a partire dall’anno di nascita (1297) e sino al 1336 – è il foglio 11 verso del codice. La complessa simbologia – al centro sta la Madonna col Bambino, attorniata dai simboli degli Evangelisti e con una serie di iscrizioni in nero e rosso che contribuiscono a definire l’orientamento della tavola – deriva dal sogno fatto nell’agosto del 1334, quando Opizzino ‘rinacque’ dopo la malattia che lo aveva colpito. In una serie di cerchi concentrici, scanditi cronologicamente, l’autore si auto-rappresenta sub specie simbolica. Attraverso le metafore che utilizza riesce a dare corpo e forma a una serie di idee che coinvolgono la realtà e la sua trasfigurazione simbolica.
Non c’è da stupirsi se, una volta che il Prefetto della Biblioteca Vaticana Franz Ehrle segnalò a Fritz Saxl l’esistenza del Palatino Latino 1993 intorno al 1913, questi si affrettò a far pervenire alla biblioteca dell’Istituto fondato da Aby Warburg una serie di riproduzioni delle tavole di Opizzino. Ci vollero però degli anni perché quel materiale divenisse oggetto di uno studio sistematico, a partire dal 1923, da parte del giovane Richard Salomon. Da quel momento lo scriptor pavese ha conosciuto una continua e quasi ininterrotta fortuna. Si sono susseguiti una serie di studi diversi, da quelli filologicamente agguerritissimi di Michele Feo – che, tra le molte altre cose, ha anche di recente ristabilito la lezione «Opizzino» rispetto al consueto «Opicino» – a quelli di carattere più storico di Victoria Morse o Daniela Rando.
In un certo senso il volume di Sylvain Piron Dialettica del mostro Indagine su Opicino de Canistris, pubblicato da Adelphi «Iconica» nella traduzione di Angela Guidi Nissim (pp. 349, 23 ill., euro 50,00), può essere considerato uno degli ultimi anelli di questa catena. Apparso in francese nel 2015, di quell’edizione il volume italiano ha conservato, fortunatamente, tutto il fascino visivo: le tavole, molte al vivo della pagina e davvero bellissime, si accompagnano a una serie di inserti apribili, che permettono di apprezzare in tutta la loro stratificata, a volte straniante complessità le tavole dello scrivano-disegnatore. Dopo un’ampia rassegna circa la complessa riscoperta dei codici vaticani e, di conseguenza, del loro autore, l’analisi di Piron si dipana a partire proprio dalla cosiddetta autobiografia: poco a poco s’iniziano a comprendere i dettagli, a cogliere il sistema di rimandi, a seguire il filo del discorso scrittorio-visuale. È la chiave che l’autore sceglie per dischiudere il complesso mondo di Opizzino, la sua vita di uomo medioevale, fatta di simboli, di fede, di angosce dilanianti sulla salvezza dell’anima. Un filone di studi si è concentrato sulle indagini di tipo psicoanalitico, per tentare di cogliere la malattia mentale di Opizzino, dalla quale sarebbero scaturite molte delle sue ‘visioni’. A far data, almeno, dagli interessi di Carl G. Jung nel 1943, passando per il capitolo su Opizzino nel volume del 1952 di Ernst Kris Ricerche psicanalitiche sull’arte, per giungere fino al saggio di Mauriel Laharie e Guy Roux del 1997, esplicitamente dedicato all’«arte» e alla «follia» dello scriptor pavese.
Questo tipo di analisi sono, in parte, utilizzate anche da Piron, in particolare laddove, secondo lui, non è possibile studiare Opizzino senza tener conto dei suoi «travagli psichici». Sin dal titolo, del resto, echeggia un appunto di Aby Warburg steso nel 1927 dopo il suo ricovero a Kreuzlingen: è Warburg che parla di «dialettica del mostro», dove dietro al secondo sostantivo sono da intendere i disturbi psichici che avevano travagliato la sua esistenza. È chiaro che proiettare su Opizzino idee nate dopo che l’inconscio e la psiche si sono guadagnati un posto ben saldo tra le scienze sociali è operazione alquanto rischiosa. Va detto, però, che il percorso costruito da Piron insiste, per così dire, delicatamente su questi aspetti, non li fa assurgere a lente onnicomprensiva. La vicenda di Opizzino si disegnerebbe allora come una testimonianza in grado di far luce tanto sul dramma della sua individualità quanto, in senso più storico, sulle «realtà sociali attraverso le quali si è costruito e determinato». È, in fondo, la domanda iscritta in una delle tavole del Palatino Latino, al folio 20 recto, «Quis sum ego?», che spinge ancora oggi a guardare alle vicende dello scriptor-disegnatore.