«Andai a Treviso, a Bassano, a Castelfranco; feci passeggiate a piedi e in carrozza, visitando vecchie chiese ammuffite con dipinti male illuminati». Così racconta il protagonista del Carteggio Aspern,il romanzo breve di Henry James che si svolge nella Venezia decadente di fine Ottocento. Il problema della cattiva, forse pessima illuminazione dei dipinti in Italia è sempre stato molto sentito dallo scrittore americano che, già quando era arrivato nella città lagunare nel 1869, aveva scritto una lunga lettera al fratello William in cui gli diceva che le opere di Tintoretto erano quasi sempre difficili da ammirare perché «atrociously hung & lighted». E ancora, in un saggio del 1882, James sottolinea che «le chiese di Venezia sono ricche di dipinti e molti capolavori stanno nascosti nell’oscurità impraticabile di cappelle laterali e sacrestie. Molte nobili opere stanno arroccate dietro le candele polverose e le rose di mussola di un qualche altare poco visitato; alcune anzi, nascoste dietro l’altare, soffrono in una tenebra che non potrà mai essere esplorata».
Non è solo James, però, a lamentarsi della cattiva illuminazione dei dipinti veneziani ma, come leggiamo nel saggio di Rosella Mamoli Zorzi – curatrice insieme a Katherine Manthorne del volume From Darkness To Light Writers In Museum 1798-1898 (Open Book Publishers, pp. 394, 44 illustrazioni a colori, £ 34,95, paperback £ 24,95) –, anche John Ruskin, visitando la Scuola di San Rocco, a causa del buio che pervade tutte le figure addirittura non è convinto di poter attribuire con certezza alcuni quadri a Tintoretto perché sono così scuri da non poterli decifrare adeguatamente. Mentre il critico inglese imputa la scarsa visibilità delle opere all’architettura rinascimentale, che di certo lui non apprezzava, James approfondisce meglio la questione e anche a Firenze avrà da recriminare sulla luce, davvero scarsa, e il modo di appendere i quadri, troppo in alto e lontani dagli occhi del visitatore. Anche di fronte a un incantevole Botticelli lo scrittore americano, infatti, non sa più se compiacersi con se stesso per essere stato in grado di ritrovarlo e riconoscerlo, oppure sdegnarsi per averlo visto «così oscuramente appeso alla parete di una delle sale più piccole» da farlo sembrare quasi in esilio, e si domanda allora che impressione farebbe con la giusta cornice e in quella che definisce «a strong American light» – curioso che nella traduzione italiana di Ore Italiane («Grandi Libri» Garzanti, 1984) questo passaggio suoni: «sotto una luce intensa e dentro la sua brava cornice dorata», con omissione quindi a ogni riferimento alla «luce americana» che auspicava James.
Certamente senza illuminazione doveva essere molto difficile apprezzare pienamente Tintoretto alla Scuola di San Rocco, ma se si considera che nel 1856 l’orario di apertura dell’Accademia era limitato da mezzogiorno alle tre del pomeriggio, capiamo quanto vedere i quadri nel corso dell’Ottocento fosse un’esperienza fortemente condizionata dalla presenza o meno della luce del giorno, che influiva evidentemente anche sulle emozioni dei visitatori.
Se l’illuminazione artificiale ha reso possibile vedere i dipinti in modo nuovo, nel corso del Grand Tour il fascino del buio ha invece contribuito a esaltare la fantasia romantica degli artisti e degli aristocratici viaggiatori, che spesso amavano visitare le collezioni di statue proprio a lume di candela. Le opere sembravano così animarsi nell’oscurità e le ombre che le agitavano favorivano quelle suggestioni che la Gypsotheca Canova di Possagno ha pensato recentemente di restituire organizzando visite notturne per farne rivivere l’incanto.
La luce elettrica arrivò a Venezia verso la fine del XIX secolo, e fino ad allora l’illuminazione serale e notturna della città dipendeva esclusivamente dalle lampade a olio o dalle candele, mentre le luci a gas furono introdotte soltanto nel 1839. Il libro raccoglie gli studi che hanno avuto origine quando è stata progettata la nuova illuminazione a LED della Scuola di San Rocco. Partendo da questo evento, a cui è seguito un convegno organizzato dalla sede veneziana della Società Dante Alighieri, i numerosi interventi di storici dell’arte e della letteratura fanno il punto sul periodo in cui i musei non erano ancora illuminati e su come questo abbia influito sul giudizio e sulla percezione delle opere da parte dei viaggiatori ottocenteschi.
L’indagine non è limitata a Venezia e all’Italia, ma racconta le esperienze di viaggio e di visita nei musei e nelle collezioni di buona parte dell’Europa, più alcuni casi americani. L’introduzione dell’illuminazione nei musei è uno spunto affascinante per leggere un passaggio fondamentale della storia del gusto, e questo prezioso volume, la cui edizione italiana sarà prossimamente pubblicata dalla Dante Alighieri, ci offre la possibilità di confrontare le varie esperienze di scrittori o giornalisti in giro per musei, chiese e gallerie fra Stati Uniti, Europa e Giappone prima che l’illuminazione elettrica venisse introdotta, prendendo in esame in particolare il periodo che va dal 1798, quando il Louvre divenne un museo aperto al pubblico, fino alla fine del secolo successivo.
Melania Mazzucco firma un bel saggio su Tintoretto, così come di grande interesse sono lo scritto Time and Light di Antonio Foscari e quello di Sergio Perosa, che si sofferma su alcune assonanze fra Shakespeare e Henry James. Stimolanti, poi, i contribuiti sulla National Gallery di Londra, il Sir John Soane Museum e Chatsworth House, ma anche su alcuni musei americani, come l’Isabella Stewart Gardner a Boston e la Freer Gallery di Washington.
Le impressioni dei viaggiatori di oltre Oceano che iniziarono ad arrivare in Italia nel periodo che va dalla fine della guerra di indipendenza alla vigilia della guerra civile, periodo che è stato definito l’«età omerica» della storia della cultura americana, e poi, sempre più numerosi, fino alla fine dell’Ottocento, sono al centro di due ampi saggi di Cristina Acidini e Margherita Ciacci. Le due studiose documentano in modo dettagliato e appassionato il richiamo dell’Italia su quei viaggiatori che partivano pieni di speranze in cerca delle proprie radici e, in parte, di un’identità da offrire alla loro giovane nazione. Scultori, pittori e letterati, ma anche semplici turisti con il Baedeker o il Murray alla mano, iniziarono a riversarsi nelle sale dei musei italiani per prendere ispirazione. Tanti furono i semplici copisti e tanti gli artisti illustri le cui opere hanno poi viaggiato a ritroso sull’Oceano. L’immagine dell’Italia come un’Arcadia velata da un misterioso passato via via si rischiarò – è il caso di dirlo – alla luce del nuovo secolo e dell’illuminazione che stava arrivando.
E se il fascino dell’oscurità resta sempre in qualche misura presente nei romanzi e nei resoconti dei viaggiatori ottocenteschi, immaginiamo la meraviglia di trovarsi per la prima volta di fronte a opere che, letteralmente venendo alla luce, rivelavano un’altra e nuova immagine di se stesse, quasi come accade ancora oggi quando, appunto in una chiesa buia, si inserisce una moneta e, con un colpo secco o con una lenta apparizione, si illumina di fronte a noi una scena pressoché sconosciuta.