Fra le opere esposte in permanenza presso la Galleria Nazionale di Roma, c’è un grande gruppo scultoreo in terracotta di Arturo Martini, Le sorelle (o le stelle), del 1932. A entrambe le figure della scultura mancano le mani, e a una delle due anche la testa. Che l’incidente sia accaduto in un evento bellico e che, come si dice, lo stesso Martini abbia deliberatamente deciso di mantenere la scultura in questo stato, non cambia l’argomentazione: l’opera d’arte danneggiata consente all’osservatore uno sguardo più intimo, più confidenziale, più attivo. Crea, letteralmente, una re-distribuzione del sensibile fra chi guarda e l’opera: un invito al corpo ad avvicinarsi, alle mani di toccare.
Ciò non vale, evidentemente, per le sculture dell’antichità, per le quali la forma-frammento è garanzia «auratica» della provenienza archeologica e di attraversamento di estese temporalità culturali. Per le opere d’arte moderne, la cui storia si svolge in prevalenza nel contesto museale, la distanza prodotta dall’«aura» è consustanziale all’integrità dell’opera, che l’istituzione-museo preserva per statuto e che si propone di mantenere nella condizione esatta in cui l’artista aveva deciso di considerarla compiuta, finita.
L’opera «rotta» – come quella non-finita – mette appunto in questione l’ideologia della compiutezza, insieme a quella della fedeltà alla, vera o presunta, intenzione dell’artista. Compiutezza e aderenza al volere dell’artista delineano una cornice ideologica che sostanzia l’operato del museo e lo apparenta a quello del mercato dell’arte. Per diventare merce, cioè per essere scambiata, un’opera deve, infatti, essere definita nel suo inizio e nella sua fine, nella sua sintesi formale e, soprattutto, nell’irreversibile separazione dalle mani e dalle possibilità di intervento del suo autore. Risultano incompatibili con l’idea stessa di mercato situazioni in cui l’acquirente di un’opera d’arte accetti che, per contratto, l’artista (o altri) possa continuare a modificare, alterare e magari danneggiare quella sua opera. Eppure cancellazioni, frammentazioni e possibilità di successive trasformazioni sono potenti strumenti di espressione e di senso che, come qualsiasi artista sa, rendono l’opera viva, collegata al tempo e alla straordinaria forza creativa degli «agenti esterni» e del caso. Basti pensare al citatissimo caso del Grande Vetro di Duchamp e alla strepitosa cancellazione imposta da Rauschenberg al disegno di De Kooning in Erased De Kooning del 1953.
Ovviamente vedere un’opera rotta ci consente di guardarvi dentro, un po’ come fanno i bambini quando aprono un giocattolo per svelarne il meccanismo. In questo senso i restauratori detengono una conoscenza materiale dell’opera che è assimilabile a quella che ha l’operaio rispetto al prodotto. E, forse, all’idea marxiana di «coscienza di classe» si può assimilare la «coscienza di cura» che dietro le quinte il restauratore dedica all’opera, rispetto all’evidenza pubblica del lavoro espositivo del curatore della mostra.
Sensibile Comune. Le opere vive propone di avvicinarsi alle opere d’arte mostrandole «aperte», rotte o danneggiate, per dirigere lo sguardo su ciò che viene loro a mancare, a partire dalla realtà materiale piuttosto che dalla sembianza musealizzata. E finendo così per interpellare lo stesso concetto di trasformazione e di curabilità. Per citare la bella espressione dell’antropologo Tarek Elhaik: le «opere incurabili» sono forse alla base delle forme di curatorialità a venire.