Opere al confine tra due mondi
Intervista L’Iraq è stato il teatro dove l’architettura ha cercato di tradurre localmente il messaggio «universale» del modernismo. Dopo la guerra che ha devastato il paese, di quella stagione poco è rimasto in piedi. Parlo lo storico dell’arte italiano Ettore Janulardo
Intervista L’Iraq è stato il teatro dove l’architettura ha cercato di tradurre localmente il messaggio «universale» del modernismo. Dopo la guerra che ha devastato il paese, di quella stagione poco è rimasto in piedi. Parlo lo storico dell’arte italiano Ettore Janulardo
«Forse, si potrebbe dire che alcuni dei conflitti ideologici che animano le polemiche di oggi si svolgono tra i devoti discendenti del tempo e gli abitanti accaniti dello spazio». Tale osservazione di Michel Foucault – tratta da una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 su un’idea di uso del tempo e degli spazi in un’ottica francese, europea e occidentale – è stata riportata alla nostra attenzione, in un recente incontro all’Università La Sapienza di Roma, da Ettore Janulardo, raffinato storico dell’arte e dell’architettura, che rivolge uno sguardo sensibile all’immagine e all’immaginario delle città. A queste tematiche, Janulardo ha dedicato numerosi scritti, tra cui ricordiamo il volume L’image de la ville dans l’architecture, la peinture et la narration italienne de l’entre deux-guerres (2014).
Riletta ora, la riflessione di Foucault può essere una delle chiavi interpretative dell’odierno scenario internazionale, segnato da una netta contrapposizione tra l’apparenza metafisica di un certo integralismo orientale, radicato in una dimensione potenzialmente legata al tempo, e un pensiero che cerca di confrontarsi, invece, con i territori e l’orizzontalità delle nostre esistenze, provando ad «aggiustare la mira» sul rapporto di convivenza con gli altri. «Ragionare sugli spazi abitativi delle nostre società e città, significa decidere se l’architettura deve avere un ruolo civile, terreno, umano o se dev’essere unicamente concepita in chiave totalitaria», ci dice Janulardo. Partendo dalla riflessione di Foucault, abbiamo dialogato sull’archeologia del moderno in Iraq e sulle nuove possibili visioni di quei tumultuosi squarci urbani che la Siria – ostaggio della guerra civile e dello Stato Islamico – ci consegna oggi come monito e come dolorosa eredità di un passato da ricomporre.
Tra la fine del secondo conflitto mondiale e gli anni Ottanta, Baghdad è stata al centro di progetti edilizi innovativi eseguiti o studiati da esponenti di punta del modernismo internazionale quali Sert, Aalto, Lloyd Wright, e ancora Le Corbusier, Ponti e Gropius. Quale significato assumono, oggi, quegli edifici «stranieri» che – pensati allora sia come apertura al modernismo architettonico che a un’idea di modernità politica, sociale e culturale in Oriente – sopravvivono in un tessuto urbano in cui l’orizzonte occidentale non è più contemplato?
Prendiamo, come esempio, Le Corbusier. I suoi progetti in Iraq sono considerati spuri perché ultimati dopo la sua morte. L’idea iniziale prevedeva la realizzazione di una vera e propria «Città Olimpica dello Sport», commissionata da re Faisal II a metà degli anni Cinquanta. In realtà, nel 1980, fu portata a termine solo la palestra. Ci sono documenti, fruibili attraverso i collaboratori di Le Corbusier, che consentono di risalire al piano generale, fermo restando che la palestra – danneggiata a causa dell’occupazione militare statunitense durante la Seconda guerra del Golfo – è divenuta un elemento quasi simbolico di debolezza costruttiva. Le Corbusier, infatti, l’aveva immaginata in un certo modo, poi sembra che il percorso per gli atleti fosse eccessivamente corto per cui essi avrebbero dovuto procedere in diagonale. A quel punto, però, gli spettatori sarebbero stati privati della visione «globale» della gara.
Dopo l’improvvisa scomparsa dell’architetto franco-svizzero, alla palestra furono aggiunte decorazioni che lui non aveva previsto: la struttura venne, in un certo senso, «orientalizzata». Essenziale è inoltre la questione dell’adattamento climatico. La sfida era rendere questi ambienti tipici del modernismo internazionale anni Cinquanta – edifici corposi anche dal punto di vista dell’imponenza del cemento – sfruttabili ad alte temperature. Si presenta qui il problema della climatizzazione all’occidentale chiamata a coabitare con tendaggi e velature di matrice orientale sulle finestre, le quali – secondo i canoni del modernismo – dovevano essere nello stesso tempo ampie. Il problema di Le Corbusier, ma anche di Walter Gropius, nel portare avanti tali progetti fu che, mentre effettuavano gli arrangiamenti tecnici, cambiarono i riferimenti politici.
Il rovesciamento della monarchia determinò per Le Corbusier, Gropius e altri che avevano provato a inserirsi nel fermento costruttivo della Baghdad di fine anni Cinquanta, una rinegoziazione dei loro disegni secondo le mutevoli necessità dei committenti. Sono progetti, dunque, che hanno le «stimmate» del modernismo ma che risentono di un’indubbia ambiguità politico-ideologica. Essi rappresentavano un tentativo d’incontro tra due mondi – ognuno con la speranza di poter volgere l’intesa a proprio favore – che non si sono capiti fino in fondo. Malgrado ciò, oggi, se non con nostalgia, possiamo guardare a quell’esperimento con interesse rispetto alle vicende del presente, in cui l’alternativa oscilla tra l’ignorarsi e il guerreggiare.
Con quali attese, ideali o sentimenti gli architetti occidentali concorrevano alla costruzione della Baghdad anni Cinquanta?
Dal punto di vista della commessa che cercavano di ottenere, spostarsi in Iraq equivaleva per gli architetti occidentali ad andare in un qualsiasi altro punto del mondo. Il Palazzo per Uffici Governativi di Gio Ponti a Baghdad – realizzato tra il 1957 e il 1958 dalla stessa équipe che lavorò al Grattacielo Pirelli a Milano (1956-1960) – è molto simile al cosiddetto Pirellone. Solo che mentre quest’ultimo ha la dominante verticale, l’edificio di Baghdad – danneggiato a fine 2003 da incendi e attacchi di natura politico-ideologica – ha uno sviluppo orizzontale, che si confà evidentemente sia al contesto urbano che a una serie di esigenze emblematiche del potere iracheno tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Il bisogno di mostrare una presenza «massiccia» non è dissimile da quanto hanno fatto il fascismo mussoliniano – si pensi al quartiere Eur a Roma – e il nazismo, sotto l’impulso di Albert Speer.
A Baghdad, dal dopoguerra in poi, l’obiettivo a cui mira il potere – sia quello della monarchia che quello successivo del colpo di stato repubblicano che prepara l’avvento del partito Baath fino a Saddam Hussein – è di ostentare, in chiave propagandistica, l’auctorictas dell’amministrazione irachena. Gli architetti occidentali da una parte vorrebbero essere i portatori di una modernità sovranazionale e transnazionale, con un linguaggio universale e minimi adattamenti locali; dall’altra, cercano di approfittare della situazione. Walter Gropius – nonostante si fosse allontanato dalla Germania hitleriana, rifugiandosi prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti, e per quanto avesse una visione «democratica», progettò a Baghdad la Città Universitaria – pensiamo al grandioso e célibataire arco Open Mind leggibile come «totem» proiettato verso l’avvenire – affermando che per una volta nella vita aveva potuto avvantaggiarsi della situazione e confrontarsi con un’autorità che dava assenso incondizionato, saltando i passaggi tipici di un concorso e di una progettazione pubblica di ambito occidentale.
Sembra dunque che mentre in quegli anni, in Iraq, il concetto – e anche il desiderio – di modernità fosse soggetto a variabili, ma comunque esistente in una prospettiva di dialogo con l’Occidente, oggi sia definitivamente svanito.
Ricordiamo che il concetto di modernità di Le Corbusier, Gropius e Ponti non è lo stesso inteso dalla monarchia irachena a metà degli anni Cinquanta, quando voleva investire nella modernizzazione del paese sfruttando i proventi dell’industria petrolifera. Le due logiche si sono incrociate temporaneamente ma, dagli anni Ottanta in poi, il divario si è accentuato. Il conflitto con l’Iran ha segnato una sorta di blocco rispetto alle ambizioni dell’Iraq di essere un faro della modernità nella regione. I contraccolpi che ne sono scaturiti, primo fra tutti il tentativo di rivincita attraverso l’invasione del Kuwait, hanno spezzato definitivamente quei progetti. Proporsi d’invertire il corso della decadenza fu anche la «manovra» del regime fascista quando decise di occupare la Grecia: si cerca, insomma, un avversario ritenuto abbordabile per dare l’impressione di ottenere conquiste grandiose.
Nella drammatica situazione attuale possono esserci forme di contatto – nell’ambito della formazione e della ricerca archeologica, per esempio – sotterranee o alternative in rapporto alle dinamiche di dialogo fra Oriente e Occidente della metà del XX secolo, principalmente perché ora bisogna fare i conti con l’amministrazione di governi più provvisori che stabili.
«La Siria oggi è sconvolta da una modernizzazione tumultuosa; le rovine sono la sola cosa che sia rimasta inalterata», scriveva nel 1985 Alberto Moravia in una raccolta di réportages di viaggio ormai introvabile, che lei ha riscoperto. Oggi, dobbiamo arrenderci all’idea di aver perso anche le rovine. Mi riferisco ai danneggiamenti – in alcuni casi irreversibili – nei siti di Dura Europos, Bosra, Palmira (e altri) ad opera dell’Isis e del regime di Bashar al-Assad ma anche alla distruzione dei centri storici pluristratificati di Aleppo e Damasco, a causa della guerra civile. Come dobbiamo immaginare queste città nel futuro?
Luoghi urbani del Vicino Oriente come Baghdad, Aleppo, Damasco ed anche Beirut non possono più corrispondere a quell’idea mitica d’impronta occidentale che ne avevamo fino a qualche anno fa. Se in certe aree dell’«Oriente» l’Occidente può essere visto come il male, per la tradizione pittorica e letteraria europea degli Orientalisti, il Vicino Oriente coincide con un modello e, se vogliamo, con un ideale che dal Settecento in poi è stato storicizzato. Nonostante trasformazioni e commistioni, è difficile pensare che quelle città e quelle aree potranno mai essere identiche alle nostre. L’omologazione totale non esiste e mantiene un suo grado di differenziazione: la Damasco del futuro non potrà essere simile o uguale a Tokyo. Ci sono delle specificità, un portato positivo e negativo di risposte date in quei territori e in quegli ambiti, che sopravviveranno al di là delle distruzioni che le hanno colpite. Se Calvino parlava di città invisibili, Baghdad, Damasco e Aleppo saranno città visibili ma con occhi che dovremmo adattare a una nuova visione, allontanandoci da una concezione predefinita di ciò che deve o può essere una città orientale. Dovremo sforzarci, insomma, di concepire quelle differenze che ci consentiranno di riconoscere ancora l’alterità e di percepire un altrove.
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