È una di quelle circostanze in cui non si riesce a essere del tutto soddisfatti, ma neanche completamente delusi. Tra qualche giorno, a Roma, verrà chiuso al transito automobilistico il tratto finale di Via dei Fori imperiali, quello contiguo al Colosseo. È appena un ritocco, ma finalmente si materializza una trasformazione urbana attesa da decenni, s’infrange un cronico e patetico indugio. Si procede tuttavia al minimo attrito, come fossimo ai preliminari: è un gesto appena accennato e poco più o forse niente più. Un evento comunque rilevante, obbligatoriamente storico (considerando il contesto millenario). Evoca una grande suggestione e agirà sull’immaginario culturale collettivo. Se ne parlerà in tutto il mondo: speriamo più dell’abdicazione di re Alberto del Belgio o della nascita dell’erede al trono d’Inghilterra.

Allora, dopo decenni d’inguardabile ignavia, d’inerzia politica e di miseria culturale, ci si avvia a salvaguardare uno degli ambiti archeologici più importanti nel lungo cammino della storia. Un intervento che un meschino provincialismo aveva a lungo rabbiosamente impedito, ma che finalmente prova a schiudersi nel concreto, sia pure tra rattrappite timidezze. Merito del nuovo sindaco di Roma, Ignazio Marino, ma merito soprattutto di una battaglia urbanistica e ambientale durata mezzo secolo, avviata da intellettuali come Antonio Cederna e Italo Insolera, raccolta da amministratori come Luigi Petroselli e Renato Nicolini e coltivata dai tantissimi che in città hanno continuato a ritenerla cruciale e indispensabile.

Bene, si comincia. Ma si comincia davvero a proiettare questa città ingrigita e impigrita verso una dimensione contemporanea, a darle nuovo slancio e imprimere una spinta vitale? Oppure, alla fine, tutto si ridurrà a un corridoio di quattrocento metri riservato a bus e taxi, con contorno di biciclette e palloncini? Del resto, se ci si limita a interdire l’accesso automobilistico privato, a disegnare le corsie per i mezzi pubblici, a rivedere qualche senso unico, rimodulare qualche semaforo, è difficile pensare che vada diversamente. Dal tono delle polemiche in corso, che tendono a ridurre il tutto a una questione di disciplina del traffico, di vigili urbani da impiegare, di aree e transiti per lo scarico merci, l’impressione è che l’intervento sia non solo esiguo nelle proporzioni, ma anche d’incerta qualità. Un’impressione peraltro confermata dalla preoccupata ritrosia dell’amministrazione comunale, quasi fosse dubbiosa o addirittura ignara del valore e l’entità delle sue stesse scelte politiche.

Per ripristinare quanto meno il senso storico dell’intervento che, seppure in una logica da minimo sindacale, il Campidoglio si accinge a realizzare, proviamo a ricostruire l’impianto generale in cui si colloca e le ragioni politiche che lo rendono necessario.
La Via dei Fori viene inaugurata all’alba degli anni trenta da Mussolini in persona, dopo aver completamente polverizzato i quartieri medievali che sorgevano ai bordi della Suburra (gli stessi già inceneriti da Nerone) e deportato nelle borgate migliaia di persone. Così riassume l’intervento Italo Insolera in Roma moderna: «Il più colossale sventramento nella vecchia Roma è indubbiamente quello attuato per mettere in luce i ruderi dei Fori imperiali demolendo tutte le case (tra cui alcune di valore) tra Piazza Venezia e la Velia, la collina dietro la Basilica di Massenzio che fu tagliata per completare il tracciato rettilineo di Via dell’Impero. I ruderi rimessi in luce – continua Insolera – furono subito seppelliti sotto una soletta di calcestruzzo su cui passano le strade: così si è rotta per sempre e volutamente l’unità della zona archeologica, l’unità cioè dei Fori imperiali che gli imperatori avevano attuato proprio come ampliamento dell’antico Foro repubblicano».

Sventrare nel cuore del centro corrisponde a una malintesa e grossolana esigenza di monumentalizzare e “liberare” gli antichi Fori, eliminando come fossero scorie architettoniche (oltreché sociali) quei tessuti urbani che la storia aveva lasciato crescere intorno a essi. «Quella città – la definisce Ludovico Quaroni nelle sue splendide Lezioni romane – di casette e di ortiche, di ruderi e di miseria polverosa, di luce e di nuvole». L’intento del regime è quello di collegare, in un impeto di idealismo urbanistico, le antiche vestigia imperiali con le velleità imperialiste del fascismo.

Al di là delle riserve ideologiche e di un residuale e stucchevole romanismo, il risultato è sostanzialmente un goffo e ridondante asse urbanistico, che avrebbe dovuto congiungere il moderno (l’Altare della patria) con l’antico (il Colosseo), ma che in pratica diventa uno stradone grigio che né riesce a comporre una prospettiva decente, né a far respirare come meriterebbe il sedime archeologico. Con il tempo (e il traffico) Via dei Fori imperiali ha finito per diventare una pista automobilistica, il Colosseo un ciambellone assediato e Piazza Venezia una rotatoria puzzolente.

C’è da dire che il tentativo mussoliniano, per quanto tardivamente, raccoglie un modello politico autoritario, esplicitamente connotato da un’ideologia aggressiva e persecutoria. Figlio di quell’urbanistica autoritaria e militaresca a cavallo tra l’ottocento e il novecento il cui obiettivo era ripulire le città dai grovigli edilizi disordinati che davano rifugio alle classi povere e spesso ribelli. E infatti lo sventramento dei Fori era stato previsto fin dal piano regolatore del 1883, confermato in quello del 1909 e infine realizzato in conformità con quello del 1931. Insomma, per affermarsi, il nuovo deve divorare il vecchio, costi quel che costi. Un metodo distruttivo e azzerante.

Invece, l’antico non è un peso da eliminare ma un bene da accarezzare e coccolare. E lo si custodisce al meglio non negandolo o nascondendolo, ma esaltandone la qualità formale e la suggestione immateriale. Dunque, per imporsi, il nuovo deve accettare, accogliere il vecchio. Non cannibalizzarlo, semmai strumentalizzarlo, con sensibilità estetica e intelligenza progettuale. In questo quadro, il centro storico di Roma è in sé un magnifico orizzonte, una scintillante stratificazione culturale, che in fondo necessita di sole politiche nutritive: manutentive e valorizzanti. E dunque non solo conservazione e salvaguardia ma anche rinnovamento e sviluppo.

E dove, se non nel comprensorio degli antichi Fori, si può realizzare tutto ciò? La restituzione alla città della funzione baricentrica di quell’area: non più politica ed economica, ma culturale e ambientale. Si tratterebbe dunque di pedonalizzare integralmente la Via dei Fori e la Via dei Cerchi e riconnettere il Colosseo con il Circo Massimo, l’Arco di Costantino e la Via Sacra, i Fori e i Mercati traianei, il Palatino e il Campidoglio. Disselciando l’asfalto e riesumando i tesori sotterranei scampati al piccone fascista, e così riconsegnando l’intero sedime allo sguardo e al transito umani. Ci si troverebbe di fronte a un incanto, in uno dei paesaggi più affascinanti al mondo: quanto e più di Pompei, come nella Valle dei re, nell’Acropoli di Atene, sulle alture di Machu Picchu, sotto la Piramide di Tulum.

Così si può rilanciare Roma, tentando di farle riacquisire quel prestigio di capitale internazionale della cultura. Una città che si è stancata d’indossare quell’invecchiata grisaglia marroncina e affumicata, e che perciò desidera cambiarsi d’abito e infine misurarsi più lieve e convinta con la sua storia millenaria. Una storia che afferma il primato assoluto della cultura e della natura non per una nobile nostalgia ma come impronta contemporanea, restituendo la città al sole e al vento, alle luci e alle ombre, al suono delle parole, al piacere dello sguardo.

Dovrebbe essere questo l’impatto dell’operazione Fori. Ritrovarsi invece a ragionare su dove passano le macchine, se di qua o di là, o dove mettiamo la fermata dell’autobus, o se i noleggiatori sono equiparabili ai tassisti, o se i centurioni possono continuare a lavorare, o dove sistemiamo i camion-bar, se insomma è così che si affronta e si programma questa pedonalizzazione, beh, il timore è che tutto finisca in una spolveratina o poco più.

Non basta aver allontanato Alemanno, né appare particolarmente efficace affidarsi alle tecniche cognitivo-comportamentali in un fine settimana a Tivoli. Roma può tornare a respirare e sorridere solo se si abbandonano le mezze misure e la gestionalità piccola piccola. C’è bisogno di coraggio culturale, di una visione alta, di una strategia finalmente ariosa e slanciata. C’è bisogno di radicalità nelle scelte, quella radicalità che oggi appare come la più ragionevole delle politiche.