«Eppure, più ci si avvicinava alle spiagge e più tempo vi si passava, più diventava chiaro che non c’era un quadro unico, un’unica storia». Qualche domanda sul perché un avvocato penalista si occupi di storia è legittimo porsela. Forse la passione che prende il sopravvento sta nel cercare di ricostruire la traiettoria delle esistenze, identificarne gli elementi irripetibili che le connotano nel mentre ci si disperde dentro i rivoli della grande storia. Joshua Levine, che firma Dunkirk (HarperCollins, pp. 403, euro 18), non è il primo tra coloro che dai banchi di un tribunale sono transitati nelle sale e tra i tavoli e le sedie degli archivi. Peraltro è recidivo, per così dire, avendo già firmato diversi saggi storici. La prima cosa da rilevare è che il testo regge alla prova di una buona opera di divulgazione storica. Ne adempie e soddisfa i parametri. A patto di riconoscere la soggettività del libro.

L’OBIETTIVO DELL’AUTORE, infatti, è non solo quello di offrire una ricostruzione storica dell’«operazione Dynamo», quando tra il 27 maggio e il 4 giugno 1940 il corpo di spedizione britannico, insieme a un contingente di truppe francesi e belghe, fu trasportato in Inghilterra, ma anche «di spiegare che cosa volesse dire essere un giovane soldato nel 1940». Levine è stato il consulente storico di Christopher Nolan per l’omonimo film, ma ciò conta solo in parte rispetto al libro, se non fosse per il fatto che la critica cinematografica si è vivacizzata, e non poco, nel merito del giudizio da formulare sulla pellicola. La sovrapposizione tra il passato di Dunkerque, come evento materiale collocato nel brevissimo arco di tempo in cui si compì il collasso francese, dinanzi ai colpi di maglio tedeschi, e Dunkirk, ossia la sua trasposizione nella memoria, che ci riporta quindi all’oggi, si gioca su due parole: «sopravvivere» e «rifugio». Sopravvivere alla caduta della prevedibilità e chiedersi dove si possa riparare, nel mentre si guarda l’orizzonte senza sapere se la spiaggia sulla quale ci si trova sia un transito oppure la propria tomba.

LA CHIAVE DIACRONICA è indispensabile per comprendere la cifra del testo, dove la trama narrativa è fatta di contaminazioni tra passato e presente, tra rimandi a quello che fu e interferenze dei giudizi odierni, tra fatti e ricostruzioni. La domanda implicita è quanto di quel passato ci sia nel presente che viviamo. E da dove, con chi, come potrebbero arrivare quelle risorse senza le quali la salvezza è inimmaginabile. Non a caso l’autore, più volte intervistato, ha voluto stabilire dei parallelismi simbolici con i processi migratori in corso in questi anni.

ANCHE PER QUESTO il libro di Levine, che pure è un saggio storico che però non rivela nulla che non sia già conosciuto, cercando invece di rileggerlo con lenti diverse, va affrontato non solo come un’opera di storia in senso stretto bensì nella sua qualità di narrazione su come gli individui, inquadrati e perduti dentro organizzazioni ed eventi che li stanno letteralmente ingoiando, cerchino di preservare se stessi e la loro soggettività. Il fuoco del racconto è la condizione del profugo, poiché chiunque sia in fuga fa parte, a modo suo, di un esercito. L’intelaiatura è data invece dalla rottura di un quadro di precari equilibri, a partire dalla guerra statica e dai ritualismi delle forze armate. Chi o ciò che mette a rischio la vita dei fuggitivi, in questo caso i tedeschi, sta sullo sfondo della narrazione, non essendone il vero protagonista.
La chiave esplicativa si trova in quel passaggio del libro nel quale l’autore scrive: «ogni individuo che si ritrovò sulla spiaggia o sul molo viveva una realtà diversa. E tutte queste realtà, allineate fianco a fianco, spesso erano in contraddizione. Basti pensare che la spiaggia era molto estesa, e per quasi dieci, intensi giorni di rapidi cambiamenti brulicò di migliaia di persone nelle più disparate condizioni fisiche e mentali. Come potevano quelle storie non essere in contraddizione? Su quella spiaggia c’era il mondo intero».

CIÒ CHE CI RITORNA di quei frangenti, quindi, non è la compiacente immagine di un mosaico, dove i tasselli aderiscono tra di loro, bensì quella di un formicaio, nel quale le strategie di sopravvivenza sono obbligate a confrontarsi con la dimensione corale del dramma nel mentre ci si adopera individualmente per scampare alla catastrofe incombente. Tutta la scrittura di Levine, quindi, è intessuta del rapporto tra generale e particolare, tra il quadro dei macroeventi e il riquadro dei singoli sguardi. La stessa situazione, il medesimo luogo, gli identici elementi assumono tonalità ma anche colori, e quindi significati, diversi a seconda della posizione di chi li osserva: soldati, marinai, avieri perdono così la loro condizione di combattenti-massa per tornare a essere uomini, quand’anche si muovano come delle formiche.
Dunkirk mantiene sempre una sottile grana letteraria, peraltro tipica di un modo di raccontare la storia da parte degli inglesi, dove l’immedesimazione con i protagonisti di allora si scioglie nella distanza calcolata dell’oggi, quasi a volere mettere bene a fuoco questa strana disfatta, dalla quale la arrancante democrazia britannica trasse più di un motivo per sopravvivere alla sua altrimenti probabile ecatombe.