Due anni fa, 400 delle 600 operaie della Fiat di Melfi scrissero una lettera all’azienda per chiedere di cambiare il colore della tuta che, dal blu operaio di una volta, i dirigenti avevano voluto bianco-grigio. Quel pigiamone, come lo chiamano i lavoratori, fatto di un pantalone e una blusa crea seri problemi alle donne perché quando hanno il ciclo mestruale si macchia con facilità. «Quando succede – aveva detto la delegata Fiom Pina Imbreda – non sappiamo dove andare. Abbiamo dieci minuti di pausa, ma non ce la facciamo mica ad andare tutte le volte in bagno, dove si accumula la coda delle colleghe. Noi facciamo i metalmeccanici, stiamo tutto il giorno in posizioni assurde perché lavoriamo dentro le macchine, con il corpo piegato dentro le scocche e diventa facile sporcarsi quando hai il ciclo. Così scatta un senso di umiliazione perché tutti in fabbrica lo vengono a sapere e qualcuno dei colleghi maschi fa pure dei commenti stupidi». L’azienda, che evidentemente ci tiene ad avere lavoratori dall’aspetto immacolato, invece di dare loro dei pantaloni blu scrisse: «Da gennaio sono in arrivo delle coulotte da indossare sotto la tuta per le donne alle prese con indisposizione mestruale».

A parte il fatto che non si capisce perché un uomo, operai compresi, debba fare delle battute cretine sul mestruo, c’è molto da dire sul linguaggio scelto dall’azienda. Già il fatto che scrivano «indisposizione mestruale» la dice lunga su quanto i dirigenti Fiat abbiano le idee confuse o sbagliate sul mestruo. Da quando in qua il ciclo è una malattia? Forse lo è per chi vede nel corpo di un operaio, in questo caso una donna, una macchina che deve essere sempre efficiente e con gli ingranaggi in ordine. Già me li immagino i ragionamenti degli astuti dirigenti. Devono aver pensato che il mestruo è una gran seccatura, e peccato non esistano operaie senza quell’indisposizione. Però mica si può cedere così e cambiare la divisa a tutti i dipendenti del gruppo, che costa, quindi foderiamole con dei mutandoni, e pazienza se in estate sudano di più. Caspita, già gli diamo un lavoro e quelle vogliono pure scegliere il colore dei pantaloni.

Colpita da questa notizia, Clelia Mori, artista femminista, è entrata in contatto con le operaie di Melfi. «Tutte conosciamo l’imbarazzo di rendere pubblico quando non lo vogliamo il nostro personale mistero femminile – mi dice – L’indifferenza con cui veniva trattato mi rendeva furente. Noi lo diciamo quando e come vogliamo, non quando lo vogliono gli altri. Ho sentito una violenza insopportabile che solo con l’arte potevo risistemare nel suo reale valore simbolico troppo spesso ignorato in nome della parificazione che, in questo caso, era anche un’emancipazione d’ufficio».

Stessi diritti, infatti, non significa che bisogna appiattire o dimenticare le differenze che invece sono essenziali. Clelia voleva lavorare sulle tute vere delle operaie, ma loro, giustamente, non hanno voluto dare quelle macchiate. Così l’artista ha aspettato che l’azienda fornisse alle lavoratrici il cambio e alcune di loro le hanno mandato le tute vecchie. Su quelle, Clelia ha fatto il suo lavoro d’artista. Su alcuni pantaloni ha ricamato dei cerchi rossi con dentro delle macchie rosse con la vernice acrilica. Sulle maglie ha ricamato cieli stellati uniti da un filo d’oro che procede a zig zag, a simboleggiare la capacità di relazione delle donne. Le tute di Clelia non sono ancora state esposte. Come le operaie di Melfi, aspettano che qualcuno le capisca e le ascolti, in questo caso le guardi, senza pensare che si tratta di un’incresciosa indisposizione da donne.

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