I ribelli sciiti Houthi dello Yemen non lanceranno più missili e droni verso il territorio saudita e contro le milizie agli ordini degli Emirati. «Per il bene della pace», ha detto alla televisione al Masira Mohammed Ali al Houthi, comandante del Supremo comando rivoluzionario, aggiungendo di aver accolto una richiesta dell’inviato Onu Martin Griffiths giunta dopo che la Coalizione araba a guida saudita aveva annunciato la sospensione del sanguinoso attacco in corso da settimane contro Hodeidah, città portuale dal quale passa il 70% degli aiuti umanitari per la popolazione civile yemenita. Gli insorti si riservano il diritto di rispondere agli attacchi dei nemici e hanno confermato di aver sparato durante la notte tra domenica e lunedì un missile balistico in Arabia Saudita. La guerra in Yemen non è finita. Quello di ieri è solo un piccolo passo verso una tregua che, forse, sarà messa nero su bianco in Svezia dove Griffiths vorrebbe convocare «a breve» colloqui di pace. La Gran Bretagna intanto ha presentato una bozza di risoluzione in Consiglio di Sicurezza Onu che chiede una tregua immediata a Hodeidah e fissa un termine di due settimane alle parti in guerra perché rimuovano tutti gli ostacoli agli aiuti umanitari.

Negli ultimi tre anni la coalizione guidata dai sauditi e appoggiata militarmente dagli Usa conduce una guerra contro i ribelli sciiti sostenuti dall’Iran. Gli insorti denunciano di essere stati a lungo esclusi da governo e discriminati in vari modi. Per il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, principale fautore dell’intervento armato di Riyadh, Emirati e altri paesi arabi, invece la ribellione sarebbe frutto solo delle “ingerenze” iraniane e della volontà di Tehran di aprire un fronte di guerra alle porte dell’Arabia saudita. Sulla base di queste considerazioni l’aviazione dei Saud da tre anni martella senza sosta lo Yemen facendo morti e feriti anche tra i civili e aggravando la crisi umanitaria del Paese, il più povero dell’area del Golfo e dove la guerra ha portato anche il colera.

La cessazione, forse solo temporanea, dei combattimenti era nell’aria. Ad anticiparla indirettamente è il segretario generale del movimento sciita libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, alleato dei ribelli Houthi, che si era detto convinto qualche giorno fa che coalizione guidata dai sauditi ha compreso che la guerra è in stallo e non può essere vinta sul campo di battaglia. Oltre le considerazioni di Nasrallah, pesano anche i conflitti tra le varie componenti armate che combattono sotto la bandiera della Coalizione araba. Senza dimenticare i costi della guerra che gravano sulle finanze saudite e le pressioni internazionali su Riyadh, uno degli obiettivi che volevano raggiungere i ribelli e lo sponsor iraniano. Questi e altri fattori sono alla base del cessate il fuoco, ancora da stabilizzare. A inizio settimana l’analista Hamidi al Abdullah sottolineava sul quotidiano libanese al Binaa che uno sbocco possibile per lo Yemen potrebbe quello “ucraino”, ossia uno stato di non-guerra e di non-pace soddisfacente per due parti desiderose in questo momento di leccarsi le ferite più che di combattere.

Favorevole a una soluzione negoziata in Yemen si è pronunciato ieri Re Salman dell’Arabia saudita in occasione dell’apertura dei lavori del Consiglio Consultivo della Shura. Il punto più importante del suo discorso però è un altro. Il monarca saudita non ha fatto alcun riferimento a Jamal Khashoggi, il giornalista assassinato e fatto a pezzi da agenti sauditi che lo attendevano nel consolato di Riyadh a Istanbul. Ha invece elogiato l’impegno del figlio Mohammad che di quella brutale uccisione è ritenuto il mandante, come stabilisce anche un rapporto della Cia. Ma Donald Trump preferisce ignorarlo. Il presidente Usa si è anche rifiutato di ascoltare la registrazione dell’uccisione di Khashoggi.