Ieri il consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità – si tratta del secondo caso negli ultimi mesi – nuove sanzioni contro la Corea del Nord. Proprio il consenso comune, dovuto ai voti di Russia e Cina che hanno il diritto di veto, ha finito per intiepidire sanzioni che erano state annunciate come «pesanti». La verità è che si tratta di decisioni dure ma non letali, ovvero non in grado di mettere in ginocchio in modo quasi definitvo l’economia di Pyongyang. Proprio su questo sembra puntare Pechino, ancora ferma, sebbene all’interno siano in corso discussioni rilevanti, sui «due no», quello al nucleare coreano e quello al Thaad americano in Corea del Sud.

LA CINA NON VUOLE ancora spingere su una potenziale crisi del regime coreano, che porterebbe a rischi per i propri confini, dovuti a eventuali fughe di profughi dalla Corea del Nord. Le sanzioni decise ieri puntano a limitare le importazioni petrolifere della Corea del Nord a soli due milioni di barili annui e al blocco delle esportazioni di prodotti tessili. A questo proposito è bene osservare che il settore tessile, secondo i dati forniti dall’Agenzia coreana per la promozione del commercio e degli investimenti, solo nel 2016 in termini di esportazioni ha prodotto per le casse nordcoreane 752 milioni di dollari; si tratta della seconda voce nelle entrate di Pyongyang (al primo posto c’è l’esportazione di carbone e minerali).

L’80 PER CENTO DELLA MERCE finisce in Cina. Va poi specificato che da tempo molte ditte del settore – cinesi in primis, ma anche francesi, tedesche e olandesi – hanno delocalizzato la propria produzione in Corea del Nord, a causa del basso costo del lavoro, molto più basso che in altri Paesi come India e Bangladesh. Si ritiene che Pyongyang abbia una capacità produttiva di 670 milioni di metri all’anno e che disponga di oltre 15mila macchinari. Negli ultimi anni è stata soprattutto la Cina a usare le fabbriche nordcoreane, concentrate in particolare nella città di confine di Dandong nonché fuori la capitale Pyongyang. Ogni anno verrebbero prodotte milioni di t-shirt con l’etichetta «Made in China», più «presentabile» di una eventuale «Made in North Korea». Pechino poi rivende i capi ai suoi clienti in tutto il mondo.

LE SANZIONI ONU PREVEDONO poi il sequestro di tutte le navi da carico che non accettino di essere sottoposte a ispezioni in alto mare. Fallita dunque l’ipotesi che aveva annunciato Washington, ovvero l’embargo petrolifero completo nei confronti di Pyongyang e al congelamento di tutti gli asset detenuti all’estero dal leader nordcoreano, Kim Jong-un.

A sostenere la posizione cinese in sede di consiglio di sicurezza ha contribuito e non poco la Russia: secondo la portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zacharova «Siamo riusciti a far togliere dei paragrafi assolutamente inaccettabili dalla risoluzione Onu, concepita dai suoi autori come strumento per soffocare i cittadini nordcoreani. Tutte le richieste principali della Russia sulla risoluzione sono state prese in considerazione, le nostre linee rosse non sono state oltrepassate». Da Pechino è arrivato il parere del quotidiano nazionalista Global Times, una voce utile per comprendere alcuni umori di certi settori politici pechinesi: «La risoluzione rappresenta la posizione unita e la volontà della comunità internazionale di sanzionare Pyongyang». Come a dire, per la Cina è stato corretto ricordare a Pyongyang che non può continuare a rendere l’area instabile.

LA COREA DEL NORD ha immediatamente respinto le decisioni e ha provveduto a minacciare come di consueto gli americani, ormai prossimi a sperimentare il «dolore più grande» mai provato. «La mia delegazione condanna nei termini più forti e categoricamente respinge l’ultima illegale risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu», ha dichiarato l’ambasciatore di Pyongyang, Han Tae Song.

Per Pyongyang, però, benché le sanzioni non siano come annunciato, non si mette bene. Per il Financial Times, nei giorni scorsi, le banche cinesi avrebbero bloccato i nuovi conti aperti da nordcoreani.