Idlib «è uno dei luoghi più pericolosi della terra». A dirlo, tre giorni fa, è stato David Swanson di Ocha, agenzia Onu per gli affari umanitari. Ha anticipato la denuncia lanciata ieri da Michelle Bachelet, alta commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani: negli ultimi dieci giorni sono stati uccisi nella provincia nord-ovest siriana 103 civili, di cui 26 bambini, in raid «che difficilmente sono stati accidentali».

Idlib è l’ultimo fronte dell’infinita guerra siriana. Data per conclusa, è viva e vegeta con un’intera regione bastione delle opposizioni islamiste al governo di Damasco (si stimano 20-30mila miliziani, per lo più legati al qaedista ex al-Nusra). A pagarne il prezzo sono i tre milioni di civili che ci vivono, il doppio dei residenti tradizionali: qui sono stati ammassati gli evacuati dalle aree riprese dal governo a seguito di accordi con i gruppi armati ad Aleppo, Deraa, Ghouta est.

Oggetto di una tregua mediata lo scorso settembre da Turchia (sponsor delle opposizioni) e Russia (di Damasco), Idlib è rimasta relativamente calma per mesi. Fino a fine aprile quando la campagna militare siriano-russa è ripartita. Perché – come dice Damasco – le opposizioni non si sono ritirate come da accordi e perché era ovvio che il presidente Assad avrebbe reclamato l’ultimo lembo di territorio ancora fuori dal suo controllo.

Le ultime settimane hanno visto un’escalation nei raid aerei, con Onu e opposizioni che denunciano bombardamenti su 50 scuole, 39 cliniche, mercati (l’ultimo pochi giorni fa a Maarat al-Numan, 39 morti). Per un totale, secondo Bachelet, di 450 vittime dal 29 aprile.

A cui si aggiungono 400mila persone in fuga: «La maggior parte sono sfollati nella provincia di Idlib, un piccolo numero invece si è spostato verso Aleppo. I due terzi degli sfollati sono fuori dai campi profughi».

Una sofferenza senza fine per un paese alla deriva, imploso in una guerra nazionale e regionale per l’egemonia che a otto anni dal suo scoppio non sembra avere via di uscita. Fuori dal paese restano oltre 5 milioni di rifugiati, dentro sale il numero degli sfollati, con l’asticella ferma da anni a un sottostimato «7 milioni».

La fuga verso nord è bloccata dall’ingombrante presenza turca che non fa passare più nessuno e – come denunciato da attivisti e avvocati turchi – sta rimandando verso Idlib centinaia di rifugiati considerati «irregolari».

Non a caso a inizio luglio Ankara ha chiesto un incontro alla Russia per discutere il da farsi, ben consapevole che è Mosca a permettergli di restare nel nord della Siria, a Rojava, invasa nell’agosto 2016 e mai lasciata. Ieri il governo siriano ha accusato la Turchia di stare lavorando a un accordo con gli Stati uniti per una zona cuscinetto a nord, che plachi le ire di Erdogan (non manda giù il sostegno Usa ai combattenti curdi).

Ma di intese siglate non ce ne sono ancora, tanto più in un periodo di gelo tra alleati con Washington furiosa per l’arrivo del sistema di difesa russo S400 nelle basi turche.