Per Goffredo Parise, che nel 1983 mostra nei suoi confronti un’attrazione venata d’invidia, quello di Luigi Ontani è il «sultanato del nulla». Allora quarantenne e ben lungi dall’essere canonizzato, l’artista è già un sovrano dunque, dal regno però immateriale: su «una forma d’arte o comunque un territorio geografico situato in una parte del mondo certamente esotica ma che nessuno ha mai visitato se non indirettamente attraverso i suoi manufatti». Rappresenta qualcosa di perturbante, allora, il bellissimo Ontani a Bali (136 pp. col., euro 29,00), che – come è consueto nei libri di viaggio della Humboldt Books – vede incrociarsi, o riallinearsi, le parole della letteratura e le immagini della fotografia: stavolta le parole di Emanuele Trevi e le immagini della stessa ideatrice del progetto editoriale, Giovanna Silva. Perturbante perché, sebbene la consuetudine con Bali sia forse l’aspetto più noto di un’esistenza ad alto tasso di mitobiografia come la sua, nessuno sino ad oggi aveva mai potuto vedere Ontani lavorare in situ.
Notte degli Ogoh-ogoh
Ogni anno, in marzo, sull’isola si svolge una processione notturna chiamata Ngrupuk, che prelude al giorno più sacro del (complicatissimo) calendario balinese. In quello che viene chiamato Nyepi, il Giorno del Silenzio, tutti se ne stanno chiusi in casa, colla luce spenta, e restano appunto in silenzio: «mentre gli spiriti», spiega Trevi, «si aggirano nell’isola deserta, usurpata dai viventi il resto del tempo». Nella processione, la cittadinanza riunita trasporta a spalle delle sorte di carri allegorici, gli Ogoh-ogoh, che rappresentano esseri della mitologia induista, per lo più demoni, «un po’ come si fa da noi con le statue e i trofei dei santi e delle candelore». (A me viene in mente la processione dei Ceri, che dal 1160 si tiene a Gubbio ogni maggio: con le macchine dei Santi Patroni portate di corsa su per l’erta della collina, in un clima orgiastico, e il resto della cittadinanza che travolge ogni osservatore che volesse assistere freddamente, dall’esterno). Alla fine del rito, accompagnato dai sistri e dai tamburi del gamelan, giunti in una località chiamata Curva dei Morti, la macchina viene data alle fiamme. Non meno importante è la preparazione dei carri: alla cui costruzione e ornamento i balinesi s’impegnano nelle settimane precedenti. Che l’artista straniero sia stato accettato dalla comunità, che si sia fuso con essa, lo dimostra il permesso che gli è stato dato di realizzare anche lui un Ogoh-ogoh: che, al posto dei demoni locali, raffigura alcune delle sue divinità personali – quelli che Ontani chiama ibridoli.
È la sintesi di un modus operandi. Come ha scritto Andrea Bellini, Ontani «non “commissiona” semplicemente la realizzazione dell’opera, piuttosto dialoga con le differenti maestranze artigiane», come i ceramisti di Faenza, così creando «un laboratorio diffuso, una grande bottega fiabesca senza latitudine, stravagante ed eccentrica». Al contrario di Alighiero Boetti, che tematizzava proprio la distanza – anche in senso fisico, geografico – fra il lavoro concettuale e la sua realizzazione, per Ontani fondamentale è dunque la coesistenza, la fusione con le comunità e i luoghi di volta in volta visitati. Si realizza così un vero e proprio sincretismo, una con-fusione – o appunto un’ibridazione – di differenti mitologie (figura araldica di Ontani è del resto l’ibrido per antonomasia, la Chimera). È un «vero prodigio» quello in virtù del quale, dice Trevi a sua volta non senza un filo d’invidia, «le figure di Ontani sono riuscite a intrufolarsi in quello spazio narrativo vecchio di millenni». Anche le immagini del libro trasfondono nel proprio linguaggio cromatico questa esperienza di fusione. Spiega infatti Giovanna Silva: «abbiamo virato le foto in tre colori, oro, magenta e ciano, che insieme danno il malva, il colore di Ontani. Quando c’è Ontani i tre colori sono insieme. Quando c’è solo Bali ci sono due colori (e l’effetto è simile anche a quello seppiato e dipinto a mano dei primi lavori di Ontani)». È anche quello delle immagini nei libri di antropologia (come quello, a Ontani assai caro, di Margaret Mead e Gregory Bateson, Balinese Character) che, dagli anni trenta in poi, crearono in Occidente il mito di Bali celebrato da Artaud e Michaux.
Tigre dai talloni alati
Nella prima parte il testo di Trevi segue l’attenta preparazione dell’ibridolo (un gruppo assai stratificato con alla base una tigre ruggente dai talloni alati, «come il Perseo del Cellini», e sopra tre demoni, uno dei quali bifronte, che a loro volta sorreggono una ninfa-sirena ermafrodita, munita di lunga e minacciosa coda di scorpione; al culmine, un sapienziale gnomo barbuto col dito spianato), alla quale attendono gli espertissimi ragazzi del luogo, che appaiono e scompaiono come fantasmi. «A causa del caldo, per lavorare bisogna aspettare che cali il sole»; e davvero «questo viaggio da una notte all’altra» – la notte della partenza dalla fredda Europa, la notte febbrile in cui viene ultimato l’Ogoh-ogoh, sino a quella incendiata dall’ekpyrosis finale – è una storia notturna: una visione dionisiaca di fronte alla cui «allucinazione o fantasmagoria» il pur simpatetico Trevi, certo non un razionalista militante, mostra a più riprese un’inquietudine reale.
Già Parise del resto, conversando con Ontani, immaginava di Bali «il tormentoso caldo di fornace che avvolge il viaggiatore come davanti a un altoforno». A queste parole, all’improvviso ho capito quali spettri mi attraversassero mentre sfogliavo le pagine del libro. Il rito al quale ho assistito, sia pure per procura, ricorda infatti due episodi-chiave della mitologia dell’artista d’Occidente. Il primo lo racconta Benvenuto Cellini nella seconda parte della sua Vita: l’eroica fusione, nel 1553, del Perseo bronzeo commissionatogli da Cosimo I de’ Medici (e chissà che Trevi non menzioni l’opera per il medesimo cortocircuito). Il vitalismo e il titanismo del personaggio – che tanto lo faranno amare dai romantici – rifulgono, qui, al massimo grado: febbri violente colpiscono l’artefice, proprio a causa della temperatura sprigionata dalla fornace, ma non gli impediscono di trionfare, infine, sulla resistenza della materia. Il secondo lo racconta Andrej Tarkovskij in Andrej Rublëv, il film dedicato nel 1966 al grande pittore di icone del Quattrocento che è un apologo sul senso – politico, religioso, esistenziale – della creazione artistica. Nell’ultimo, grandioso episodio viene mostrata in toni epici la fusione – alla quale prende parte tutta la cittadinanza del villaggio – di una grande campana nelle viscere della terra.
In tutti questi casi l’opera può essere realizzata solo grazie a una temperatura altissima, e quanto mai simbolica. Ma c’è una differenza sostanziale: mentre il demiurgo occidentale, dall’alchemica immersione nel fuoco, vede plasmarsi la forma agognata (e non sarà un caso che l’episodio russo appaia intermedio, fra Oriente e Occidente: perché non a un singolo titano si deve l’impresa, bensì all’intera popolazione), nel caso di Ontani la forma al fuoco si consegna, si dissolve, s’incenerisce: così segnando la volatilizzazione del soggetto, la sua definitiva fusione appunto. È quanto il rito prescrive, ma la resistenza che a questo processo oppone la nostra mentalità è simboleggiata – nell’ultima, bellissima pagina del testo – dalla lacrima perlacea che a sorpresa scorre sul volto di uno dei giovani collaboratori dell’artista (che da lui, evidentemente, ha mutuato un modo di pensare diverso da quello ereditato dai suoi padri). In quello specchio liquido si riflette, pure, il turbamento di chi legge.