Per quanto possa apparire iperbolico, solo un terremoto è riuscito a porre freno all’energia ipercinetica del padre del Futurismo italiano, Filippo Tommaso Marinetti, a suo tempo non per nulla ribattezzato «la caffeina d’Europa». La pubblicazione del celebre manifesto di fondazione del primo movimento d’avanguardia fu infatti posticipata a causa del violento sisma che nel 1908 distrusse quasi interamente la città di Messina, causando oltre centomila vittime. Il manifesto, provocatorio nei contenuti ma ancora lontano dal radicalismo linguistico avanguardista, fu dunque lanciato su scala globale il 20 febbraio del 1909 dalla prima pagina del francese Le Figaro. Che fosse stato proprio un terremoto a ritardarne la pubblicazione è perfettamente coerente con l’ideologia futurista, ossia paradossale e contraddittorio. Il manifesto invitava, infatti, tra le altre cose, a glorificare la guerra e la violenza distruttiva, ad abbracciare l’amore del pericolo e la ribellione, ma soprattutto a distruggere musei, biblioteche e accademie. Più tardi Marinetti avrebbe persino proposto di riempire i canali di Venezia, «piaga magnifica di passato», e di dar fuoco alle gondole, definite, con geniale ironia, «poltrone a dondolo per cretini». Distruggere il passato e tutto quanto veniva considerato «passatista» pareva infatti necessario a Marinetti e sodali per la palingenesi dell’uomo moderno e per la ricostruzione futurista dell’universo, come recita il titolo di un manifesto firmato da Giacomo Balla e Fortunato Depero nel 1915.

Italian Futurism, 1909-1944 Reconstructing the Universe, l’imponente e per molti aspetti spettacolare retrospettiva dedicata al futurismo italiano dal Guggenheim Museum di New York, si propone di mostrare la complessità di questo movimento e la sua propensione a farsi opera d’arte totale per influenzare ogni aspetto della vita. Curata da Vivien Greene con il contributo di numerosissimi studiosi italiani e internazionali, la mostra presenta al pubblico americano più di trecentosessanta opere, molte delle quali mai esposte prima d’ora oltreoceano. Gli oltre ottanta artisti rappresentati, insieme ai saggi inclusi nel poderoso e ricchissimo catalogo, rappresentano gli aspetti più svariati dell’universo futurista, che include opere di musica, architettura, design, fotografia e persino esempi d’abbigliamento, oltre alla più conosciuta produzione pittorica e letteraria del movimento.

La mostra rappresenta una notevole novità non solo nell’ambito della ricezione del futurismo negli Stati Uniti ma anche nell’approccio alla concezione generale del movimento. L’ultima mostra statunitense interamente dedicata a questa avanguardia italiana è stata infatti curata da Joshua C. Taylor al MoMA di New York nel 1961, in un contesto di riscoperta internazionale e ridefinizione storica del futurismo, dopo anni di quasi autoimposta rimozione. La mostra si limitava però ai dipinti e alle sculture della cosiddetta fase eroica, compresa tra il 1909 e il 1916, l’anno di morte di Boccioni. È stata la grande esposizione Futurismo & Futurismi, organizzata a Palazzo Grassi nel 1986, a contribuire per la prima volta alla ridefinizione del futurismo come arte totale e fenomeno culturale internazionale, nonostante anch’essa presentasse una visione ancora cronologicamente contratta, che si estendeva solo alla produzione degli anni venti. L’arco cronologico coperto dalla mostra del Guggenheim permette per la prima volta di abbracciare l’interezza evolutiva – e involutiva – del futurismo, compreso tra la data di pubblicazione del manifesto fondativo e quella della morte del suo fondatore, ritiratosi – durante la breve e sanguinosa parentesi della Repubblica di Salò – proprio nella città che avrebbe voluto devastare, Venezia.
La nuova proposta critica e storiografica della mostra newyorkese, proprio con la scelta di far coincidere la fine del movimento e quella del suo fondatore, evidenzia una delle ragioni principali per la generale e comprensibile antipatia riscossa in America da questo movimento canonico dell’arte e della cultura moderna, ossia la sua identificazione con Marinetti, padre-impresario rodomontesco fino allo sfinimento, ma soprattutto con il fascismo. Nonostante Marinetti sia rimasto fedele a Mussolini sino alla fine della dittatura, e che molti dei temi dei futuristi siano poi stati inclusi e risemantizzati nel vocabolario fascista, primo fra tutti il concetto di «fascio», la storia dei primi anni del movimento non si presta a facili riduzioni, se è vero che ancora nel 1921 persino un insospettabile Antonio Gramsci riconosceva ai futuristi una «concezione nettamente rivoluzionaria» della società. Seppure in maniera limitata, e fortunatamente tale, Italian Futurism, 1909-1944 presenta anche alcune opere futuriste di esplicita propaganda, che mostrano come l’incontro tra fascismo e futurismo abbia di fatto prodotto figli mostruosi, e di certo tra i risultati artisticamente più deludenti del movimento. Non parliamo solo di figure minori come Alessandro Bruschetti e la sua didascalica Sintesi fascista (1935), ma anche di artisti straordinariamente originali e centrali nella seconda fase del futurismo come Fortunato Depero, nel cui bozzetto per un mosaico dedicato alla Proclamazione e trionfo della bandiera nazionale (1935) non si ritrova altro che la sterile cacofonia minculpopolare dello scontro tra stile modernista e realismo sociale.

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I risultati artisticamente più interessanti della fusione tra l’estetica futurista e la propaganda bellica, totalitaria e colonialista del periodo tra le due guerre sono quelli della scoperta della dimensione del combattimento aereo. Dalla fine degli anni venti e per tutto il decennio successivo, alla dromolatria e al culto futurista della macchina si affianca la mitizzazione dell’aeroplano, un’immagine che domina tutta l’ultima produzione del movimento, dall’aeropittura all’aeropoesia, dall’architettura aerea – già anticipata da Virgilio Marchi con il suo Edificio visto da un aeroplano virante – all’aerodanza di Giannina Censi. Le opere di Tullio Crali, Enrico Prampolini e Benedetta, i cui murali commissionati dal Palazzo delle Poste di Palermo concludono l’esposizione, rappresentano forse gli esempi più convincenti di quest’ultima fase.

La seconda ragione che ha sinora impedito agli Stati Uniti di apprezzare appieno la rivoluzione estetica futurista sta nell’egemonia della narrazione franco-centrica del modernismo tra gli studiosi di storia dell’arte. Secondo questa tradizione critica, i cui strascichi si trovano anche in molte delle recensioni alla mostra del Guggenheim, i futuristi non sarebbero che abili bricoleurs, incapaci di ripagare interamente il debito contratto con l’impressionismo, il divisionismo e, soprattutto, il cubismo.

Questa lettura limitativa manca di cogliere l’aspetto intrinsecamente concettuale dell’arte futurista, basata sulle idee di simultaneità e dinamismo, illustrate superbamente in un capolavoro di Boccioni quale La città che sale (1910-11), in cui la pennellata e il cromatismo espressionista sembrano rendere la dimensione tattile del movimento caotico rappresentato. Una simultaneità che nel tempo stravolge ogni propensione naturalistica per indagare la dimensione psicologica della coscienza, come nei meravigliosi Stati d’animo (1911). O ancora, si pensi ai dipinti astratti di Giacomo Balla, concentrati nella resa simultanea di concetti quali movimento, velocità, dinamismo. Si tratta di dipinti, come nel caso dell’esemplare Velocità astratta + suono (1913-14), che aspirano al coinvolgimento sinestetico dello spettatore. Il futurismo ha infatti puntato sin dai suoi esordi a essere anche una rivoluzione dei sensi, come attesta anche l’unica tavola tattile ormai superstite, Sudan-Paris (1920), un assemblaggio, concepito da Marinetti ma quasi certamente realizzato da Benedetta, di vari materiali che invitano a un «viaggio delle mani» sulla sua superficie. Un viaggio che continua anche negli straordinariamente folli libri di metallo, come Parole in libertà futuriste olfattive tattili-termiche (1932).

Italian Futurism, 1909-1944: Reconstructing the Universe, visitabile fino al primo settembre 2014, offre anche un completo panorama della rivoluzione tipografica futurista, tramite manifesti, tavole parolibere, riviste e rarissimi volumi, ma soprattutto rende con efficacia l’aspirazione del futurismo a un tipo di performance totale che coinvolge ancora oggi lo spettatore mentre s’inerpica per i corridoi concentrici dell’edificio di Frank Lloyd Wright. Forse l’unico museo che Marinetti avrebbe accettato di salvare.