Di ong, mondo del lavoro, migrazioni e welfare, diritti delle donne, si parla da tempo in Asia. Il paese a cui tutti i paesi del continente guardano, per lo più, è la Cina, perché quello più prepotente a livello internazionale e con i numeri più imponenti. Pechino sa bene come l’allargamento del welfare sia necessario. Anche per questo con Xi Jinping è partita la riforma dell’hukou, il permesso di residenza, che permetterà anche ai «migranti» di usufruire dei diritti basilari sociali, sanitari. Parte di questa modifica storica (l’hukou è in vigore dagli anni 50) si deve sicuramente alla piena consapevolezza da parte degli organismi dirigenziali cinesi, riguardo il dovere di redistribuire ricchezza in uno dei paesi con la differenza più emblematica tra chi si è arricchito e chi è povero. Allo stesso tempo la necessità di avere lavoratori e lavoratrici, anche quelli che occupano il gradino più basso della scala sociale, ovvero quelli che si spostano dalla campagna alla città, in grado di poter spendere, comprare e azionare la leva del mercato interno, permette al paese di essere meno dipendente dalle esportazioni e aumentare gli investimenti nell’innovazione. Questa progressiva china verso il basso della cosiddetta «fabbrica del mondo», è il risultato di più fattori: il decisionismo del Partito, la crisi internazionale e le attività delle ong che negli ultimi anni hanno finito per avere un ruolo sempre più importante nei gangli sociali e lavorativi cinesi. Inchieste, ricerche (ricorda Luciana Castellina nel reportage accanto, i numeri ufficiali cinesi non sono il massimo dell’affidabilità), hanno mostrato un paese che tutti vedevano, ma che nessuno ufficializzava. La forza di queste ong, quasi tutte del settore lavorativo e ambientale (ad esempio ci sono molte organizzazioni dedicate completamente al cibo biologico e alla sicurezza alimentare) è stata a tal punto rilevante, da finire nel tritacarne del governo. In Cina si dice che quasi tutte le ong siano «ong con la g», nel senso che pur essendo nominalmente «non governative», hanno una spruzzata di «governativo». Anche perché altrimenti non potrebbero esistere. Quindi va bene la ricerca e le inchieste, ma queste organizzazioni non devono esagerare. Tradurre un allarme sociale in mobilitazione, porta a finali di storia piuttosto cupi in Cina.

Ma del resto questa tendenza cinese, incontra le necessità di un continente. Da fratello maggiore degli altri paesi asiatici, tale è la considerazione della propria identità in Asia da parte della Cina, Pechino spinge sull’innovazione e sulla produzione di qualità (nelle scienze, nelle biotecnologie), perché ormai il capitale umano per la produzione a basso costo si è spostato. La stessa Cina delocalizza: Laos, Vietnam, Cambogia. Chi è stato in Cambogia si sarà accorto che ogni fabbrica di una certa rilevanza è di proprietà cinese. Stessa cosa in Vietnam. Nei giorni delle proteste anti Pechino di Hanoi e Ho Chi Minh City, per una annosa disputa territoriale tra i due paesi, la Cina ha fatto rientrare un numero piuttosto alto di lavoratori, impiegati nei propri stabilimenti. A dimostrazione di una presenza imponente. O il Bangladesh. I paesi dove donne e uomini muoiono con una certa frequenza sul lavoro (non che in Cina non accada, ma è presumibile che anche questo genere di eventi vada diminuendo in futuro). E non solo capitale cinese, perché in quelle fabbriche dove lavorano spesso minorenni, per lo più donne, a ritmi infernali, in condizioni di sicurezza che definire scadenti è poco, producono ormai i più grandi brand mondiali, come dimostrato dalla recente tragedia del Rana Plaza, a Dakka in Bangladesh. Lì lo scorso aprile l’edificio crollò e i morti furono più di mille.