Non si sopravvaluterà mai il ruolo che Alexandr Pushkin ha avuto nella cultura russa, in particolare come ispiratore di pittori e musicisti, da Mussorgskij a Rimskij-Korsakov, che nella gamma creativa dei suoi scritti, sempre all’insegna d’una lingua limpida ed espressiva, hanno trovato argomento per alcune delle loro opere più significative. Tra i musicisti affascinati dallo scrittore non poteva mancare Ciaikovskij, che sceglie due tra i testi più noti di Pushkin: l’Evgenij Onegin (1878) e la Dama di picche (1890), il primo, in parcolare, si presenta nella forma singolarissima di un «romanzo in versi» dall’andamento rapsodico e svagato nel quale lo sguardo dello scrittore sembra abbandonare spesso e volentieri il suo antieroe per riflessioni, perorazioni, considerazioni estemporanee.

Ciaikovskij scrive di essere rimasto folgorato dalla lettura del romanzo, in particolare dalla scena della lettera che la giovanissima, quasi febbricitante Tatiana scrive a Onegin per dichiaragli il proprio amore, ricevendone in cambio un freddo rifiuto di cui, anni dopo, l’amato dovrà pentirsi amaramente; la «fabula» del romanzo è apparentemente rispettata, vi latita però un personaggio fondamentale: Evgenij. Chi è, infatti Onegin, per il musicista? l’ambiguità in cui lo aveva avvolto Pushkin sembra far venir meno la possibilità di identificare musicalmente il personaggio, che è piuttosto descritto dagli altri: Tatiana, l’amico Lenskij, il coro. Prototipo dell’indifferente, Onegin interviene soltanto a chiusura dell’opera, in un drammatico duetto con la stessa Tatiana, apparentemente diventata una «principessa indifferente, dea inaccessibile della Neva, maestosa e regale», secondo i versi del poeta.

Pure, grazie questa amara e sostanzialmente deprimente vicenda, Ciaikovskij innalza un monumento dal fascino catturante alla musica popolare russa, all’amore, alla memoria. Dalla scena iniziale, col contrappunto costante dei cori contadini, sempre ancorati alla terra e alla passione sensuale, alla scena notturna della lettera, nella quale Tatiana confida il proprio amore e si affida a Onegin perché mantenga il segreto su questo sentimento, dalla commovente aria di Lenskij che sa che morirà in duello per mano del suo amico alla «polacca» che apre l’ultimo atto, quasi a far evaporare nella superficialità della vita mondana questa irrisolvibile antinomia tra amore e dovere che alla fine strazierà i due protagonisti, rendendoli entrambi perdenti.

Va ammirata la decisione del San Carlo di aver messo in scena un titolo così poco popolare. Un allestimento che vedeva alla testa dell’orchestra John Axelrod, alla regia Michal Znaniecki e un cast di madre lingua, con una importante eccezione: Tatiana di Carmela Remigio. Della musica di Ciaikovskij, di sontuosa bellezza melodica e opulenta nell’accompagnamento, Axelrod ha colto e sottolineato la capacità del musicista di far «parlare» la musica accanto al canto, musica che si fa essa stessa racconto delle anime, anticipandone e colmandone il non detto, in particolare nella grande aria di Tatiana il tema così dolce si fa ripetitivo, quasi ossessivo, aprendosi in un arioso quasi wagneriano solo quando la speranza prende il sopravvento sul timore.