È il 25 febbraio del 1964, Cassius Clay è appena diventato campione del mondo battendo Sonny Liston messo al tappeto col mitico «pugno fantasma». È giovane, bello, sente che il mondo gli appartiene, il pubblico lo applaude e la stampa gli corre dietro. Lui però ha deciso di convertirsi all’Islam seguendo il suo amico e maestro, Malcolm X, diventerà Muhammad Ali anche se sa che la scelta non sarà facile per la sua immagine e per sé stesso. Ma non è questo che racconta il film di Regina King, premio Oscar per Se la strada potesse parlare nel suo film da regista, One Night in Miami, presentato fuori concorso alla scorsa Mostra del cinema di Venezia, da domani su Amazon Prime, e subito uno dei titoli favoriti nella corsa ai prossimi Oscar.

PARTENDO dalla piéce teatrale di Kemp Powers anche autore con lei della sceneggiatura, una ispirazione quella teatrale dichiarata nella scelta di «chiudere» la storia in una stanza d’albergo, King unisce quattro figure iconiche dell’immaginario african american: Clay, Malcolm X, Sam Cooke (la sua magnifica A Change is Gonna Come grido di lotta e resistenza nera era nella colonna sonora di Malcolm X di Spike Lee) e Jim Brown, il campione del football americano che sta per abbandonare lo sport e passare al cinema – a interpretarli sono Kingsley Ben-Adir, Leslie Odom Jr., Eli Goree, Aldis Hodge. Perché proprio loro? Perché sono dei miti popolari e perché esprimono il senso dell’essere nero nella storia americana – da quelle radici di schiavismo che «permettono» solo alcune cose:  il tizio del sud bianco, fiero di Brown e dei suoi successi gli offre aiuto ma non lo fa   entrare in casa, non vogliamo «negri» dice. Le loro figure interrogano il senso della responsabilità, cosa vuol dire avere un’influenza sulla collettività e come utilizzarla, insieme alle contraddizioni dei movimenti di lotta, a cominciare dalla stessa Nation of Islam con cui nel momento del film Malcolm X è in conflitto – verrà assassinato pochi giorni dopo – dei leader come Elijah Muhammad considerati ambigui e corrotti. Dicono cosa significa fare parte di un’industria che può essere lo sport o il cinema – in questo ci si mette anche la regista – per coloro che dalla società sono messi da parte, e come combattere dall’interno appropriandosi dei mezzi di produzione – è la «lezione» di Cooke, criticatissimo da Malcolm X per le sue «canzonette» pure se i diritti venduti ai Rolling Stones gli hanno permesso di produrre chi non avrebbe mai trovato spazio. E se un «campione» può permettersi tutto – finché appunto rimane fuori dalla soglia – come dimenticare Mohammad Ali che accende con mano tremante distrutto da una vita di pugni la fiamma delle Olimpiadi? – intorno i più muoiono, la vita di un african american si può stroncare nelle strade, bersaglio di poliziotti o di razzisti. Mentre i diritti economici, sociali, medici, dell’istruzione non sono gli stessi per tutti.

«I DIALOGHI tra i personaggi del film possono avere luogo ovunque. Non importa quale è il tuo background sociale o quanto sei importante, ci sono  comuni a ogni uomo african american, che riguardano il modo in cui è guardato: ci vuole una mentalità molto dinamica per a essere neri in America e continuare a sorridere, amare, ridere avendo chiaro il nostro passato terribile e la realtà attuale in cui siamo» ha detto la regista che per i suoi quattro protagonisti si è anche ispirata al figlio, agli amici, alla famiglia.

Nata e cresciuta a Los Angeles, debutto al cinema nella scena black anni Novanta con Boyz N the Hood di Singletono fino a affermarsi nel mainstream – con film come Jerry Maguire -ha sempre sostenuto le battaglie contro l’esclusione degli africani american – la questione degli artisti neri ignorati nei grossi premi King l’aveva sollevata cinque anni prima della campagna #OscarsSoWhite, con la critica agli Emmy in un articolo: The Emmy White As Ever.

QUESTA TENSIONE guida anche la sua scrittura e la sua regia insieme all’urgenza riaffermata con forza dal Black Lives Matter – il film era in lavorazione quando è stato ucciso George Floyd – di gridare queste diseguaglianze che, come ha spesso ricordato lei stessa «Non sono mai finite». I suoi personaggi ne sono la sintesi e il simbolo nonostante le loro discrepanze, le discussioni, i tentennamenti che attraversano le loro scelte. Ciascuno rappresenta una possibile direzione ma a unirli c’è il sentimento di appartenenza, il desiderio di avere un ruolo diverso rispetto a quello scritto per loro dalla parte bianca dell’America per loro, che possa poi diventare di tutti gli altri. E vogliono farlo senza chiedere permesso, senza l’autorizzazione delle cattive coscienze, il diritto è una questione molto diversa dai piccoli aggiustamenti (ipocriti) di facciata. La stessa sincerità con cui King ripercorre la storia arrivando fino a oggi per affermare la necessità di consapevolezza di un Paese, l’America, che ne è ancora distante