In una Londra oscura, misteriosa eppure sinistramente affascinante, un adolescente che a quattordici anni viene abbandonato dai genitori si trova, insieme alla sorella di un paio d’anni più grande, a negoziare il transito verso l’età adulta, sul finire dell’ultima guerra. Nessun combattimento, tuttavia, né campi di battaglia, piuttosto riflessioni sul difficile transito dalla guerra alla pace.
L’ultimo romanzo di Michael Ondaatje, Luci di guerra (traduzione di Alba Bariffi, Garzanti, pp. 264, € 20,00) porta in esergo, anonima (ma attribuita nei ringraziamenti a Robert Bresson), una frase che può funzionare tanto da mise en abyme dell’intera vicenda quanto risultare fuorviante per la sua comprensione: «La maggior parte delle grandi battaglie viene combattuta nelle pieghe delle cartine geografiche».

Affascinato dalle mappe fin da piccolo, Nathaniel, il protagonista, per anni ha disegnato ogni settimana una nuova pianta del suo quartiere, aggiornandola nei minimi dettagli. Come nel memoir Aria di famiglia, le mappe di Ceylon erano lette da Ondaatje quale strumento di appropriazione e testualizzazione del territorio ad opera dei conquistatori bianchi, così in Luci di guerra, carte e cartine topografiche aiutano il protagonista a «conquistare» non solo la città, ma anche il proprio Io incerto. Una volta adulto, riconoscerà di aver disegnato mappe ossessivamente da ragazzo «per rassicurarsi», per avere una conferma dell’esistenza e persistenza di luoghi e persone ad essi legate.

Arrangiarsi con il destino
«Sicurezza», «protezione», «certezza» sono parole che tornano con insistenza nel racconto di Nathaniel che, come il personaggio di una fiaba, si trova a dover affrontare la perdita di ogni sostegno affettivo proprio all’inizio della vicenda, quando, in previsione di un non meglio chiarito avanzamento di carriera, il padre parte per Singapore, raggiunto in breve volgere di tempo dalla madre. Che niente di più sia dato sapere ai figli adolescenti su questa misteriosa trasferta è dimostrato dal secco incipit del romanzo:«Nel 1945 i nostri genitori partirono e ci affidarono a due uomini che potevano essere delinquenti».

Tutta la storia ruoterà intorno allo scioglimento del mistero sotteso alla partenza dei genitori, che presto scopriranno di avere preso strade diverse e che per lungo tempo non daranno più alcun segno di vita (nel caso del padre, per sempre). E poiché per Nathaniel e la sorella Rachel si tratta prima di tutto di venire a patti con lo strano individuo cui sono stati affidati, da loro soprannominato Falena, e con i suoi ancor più bizzarri amici, non stupisce che sicurezza e protezione siano le condizioni di cui i ragazzi più avvertono la mancanza.

Solo alla luce di queste considerazioni si può concordare con le parole di Barack Obama riportate in quarta di copertina, secondo cui il lavoro di Ondaatje sarebbe «una meditazione sulla guerra e sulle sue conseguenze nella vita di un’intera famiglia». Se è vero, infatti, che la madre di Nathaniel abbraccia in seguito alla battaglia d’Inghilterra l’attività spionistica di cui l’abbandono dei figli sarà conseguenza, la stabilità della famiglia era stata tuttavia già compromessa dall’assenza continua del marito: «Avevo bisogno di impegnarmi. Di proteggervi. Pensavo di farlo per la vostra sicurezza», dirà al figlio ormai adulto, per giustificarsi.

In realtà, privandoli della propria presenza, interrompendo, anzi, ogni comunicazione con loro nell’immediato dopoguerra, la donna trasforma i due ragazzi in orfani, da una parte, e dall’altra in individui liberi, senza costrizioni parentali, che possono darsi le proprie leggi. In assenza di una figura adulta forte in grado di dare forma narrativa coerente, o anche solo giustificazione accettabile, al dolore dell’assenza, Nathaniel e Rachel devono rintracciare il percorso di autodefinizione, che è loro negato nel terreno domestico, in una Londra che, come in un romanzo di Dickens, può essere assimilata, con le sue ombre minacciose e i suoi vicoli bui non mappati sulle cartine, al bosco tenebroso in cui si perdono gli eroi delle favole. Il rimando dickensiano non si limita al topos dell’orfano costretto a negoziare tutto solo i misteri della metropoli e le sue insidie; ancor più emblematici sono i personaggi che affollano la casa di Nathaniel dopo la partenza dei genitori: contrabbandieri di cani e scommettitori d’azzardo; una cantante lirica; un’etnologa; venditori ambulanti e una sorta di nerd poliglotta, a formare una fauna umana variopinta e chiassosa, che rimanda all’universo greater than life in cui si agitano i personaggi minori di Dickens e che, nel ricordo, apparirà a Nathaniel come la sua vera famiglia, più presente e protettiva dei genitori che l’hanno abbandonato.

Atmosfere alla Modiano
Tuttavia, quello di Ondaatje non è un «reale dis-realizzato», come disse dell’universo dickensiano Tomasi di Lampedusa: molte stranezze di Falena e dei suoi amici trovano spiegazione nelle ricerche di Nathaniel dopo la ricomparsa e la morte della madre, mentre una breve ma intensa relazione lo unisce a una misteriosa ragazza che si fa chiamare Agnes Street, dal nome della strada in cui avvenne il loro primo incontro. Sono coordinate che sembrano rimandare piuttosto all’universo contemporaneo di Patrick Modiano, con i suoi tanti giovani protagonisti abbandonati dai genitori, alla deriva in una Parigi per lo più notturna, spesso in cerca di protezione presso figure adulte non sempre raccomandabili, spesso impegnati in storie d’amore con ragazze enigmatiche, destinate a scomparire senza lasciare traccia. Questa inusuale commistione tra romanzo di formazione classico, non privo di elementi fiabeschi, e narrazione contemporanea dedita alla ricerca identitaria, è ottenuta dal cinefilo Ondaatje, soprattutto nelle prime sezioni, grazie all’inserimento della vicenda in un contesto (e in un’atmosfera) che paiono mutuati da certo cinema britannico dell’immediato dopoguerra, oggi purtroppo dimenticato: per esempio, It Always Rains on Sunday di Robert Hamer, ambientato in una Londra buia e piovosa, ancora ferita dalla guerra, rigorosamente in bianco e nero.

Inattese verità
Nella seconda parte del romanzo, cercando di recuperare «la sequenza perduta» della vita di sua madre, attraverso «frammenti non confermati», e indizi e dettagli spesso quasi incomprensibili – un paio di vecchie foto, una mappa disegnata a matita in cui non sono indicati i nomi delle località, ma anche il ricordo di una serie di cicatrici sul braccio della donna – Nathaniel non solo arriva a scoprire inattese verità sul conto dei genitori e di molti dei personaggi con cui ha trascorso gli anni dell’abbandono, ma si ritrova a confrontarsi con le conseguenze dei momenti «incompleti e colpevoli» della sua adolescenza che la memoria gli ha restituito.