Lo scorso anno è stato uno dei primi festival colpiti dalla pandemia messo davanti all’improvviso, come tanti altri in quel momento e nei mesi successivi, alla scelta di annullare tutto o di «sperimentare» una formula diversa, ovvero passare online. Visions du Réel, uno dei principali appuntamenti internazionali col documentario ha optato per la seconda ipotesi senza rinunciare a quasi nulla del programma previsto, e a un grosso lavoro durato un anno, e soprattutto permettendo ai film selezionati di essere visti e di non finire nel «limbo» dell’attesa di una prossima e incerta occasione.

A distanza di dodici mesi tutti speravamo che la promessa di un’edizione in presenza del festival svizzero, diretto da Emilie Bujès, fosse davvero possibile; dopo ore infinite di streaming divenuto da «eccezionale» «ordinario», forma cioè a cui si sono rapidamente adeguati per necessità un po’ tutti, comprese le manifestazioni più grandi come la Berlinale o l’IFFR, il festival di Rotterdam, eravamo felicemente pronti a ritrovarci lungo il lago Lemano su cui si affaccia Nyon, tra le stradine della città, in un dehors qualsiasi a sfidare il fresco dei capricci primaverili per il piacere di stare insieme, di vedere finalmente i film sullo schermo, di riprenderci quello spazio pubblico condiviso della sala tra i più demonizzati dalla pandemia – insieme a tutti i luoghi della cultura come se le due ore passate con mascherina davanti a un film contenessero più rischi di altrettante ore in un grande magazzino dove peraltro è più difficile controllare l’uso corretto dei dispositivi sanitari su ciascuno dei clienti.

Ma il governo svizzero qualche settimana fa ha fatto marcia indietro in modo inaspettato sulle riaperture – sale cinematografiche, teatri, bar, ristoranti – costringendo il festival a optare per un’edizione ibrida, con qualche presenza limitata alle giurie e a un piccolo numero di invitati locali e dell’Industry oltre ai registi.
Poi l’altro giorno è arrivata la notizia (meravigliosa) che la Svizzera riapre le sale il prossimo lunedì 19 – ci si sente contenti all’idea che da alcune regioni italiane si potrà andare al cinema in Ticino, mentre qui ancora non è chiaro come finirà una questione divenuta per molti aspetti opaca. Bene ricordava il «Corriere della sera» (un articolo a firma di Paolo Mereghetti in forma di lettera indirizzata al ministro Franceschini): «… Aprire senza il giusto rigore sarebbe sbagliato ma non premiare chi si impegna a farlo lo sarebbe altrettanto. Non ci può essere chi rischia in prima persona per far ritrovare agli spettatori il gusto della sala (dopo mesi e mesi di streaming), alleggerendo anche le spese dello Stato (per esempio rinunziando alla cassa integrazione) e chi invece vuole che prima tornino le vacche grasse, aspettando magari i blockbuster autunnali. Se vuole che davvero il cinema riparta, deve aiutare chi si sforza di farlo da subito ma anche «penalizzare» chi non lo fa. Troppo comodo stare alla finestra…». Tornando a Visions secondo le scelte e le possibilità last minute di ognuno, tamponi e quarantene si potrà partecipare dunque fisicamente grazie all’apertura al pubblico di quattro sale dal 22 al 25 aprile, giornata finale della rassegna.

Ma che festival è questo che nel 2021, in una situazione mondiale così anomala, prova a tracciare una mappa tra gli interrogativi del cinema documentario? La selezione è molto vasta – 142 titoli a cui si aggiungono quelli nella library dell’Industry che è una parte molto importante del festival, in cui i progetti ancora in svolgimento possono trovare interlocutori produttivi – ma nei due concorsi principali, l’internazionale e Burning Lights, dedicato a opere più sperimentali, si possono individuare alcuni motivi ricorrenti. A cominciare da un racconto del mondo sui bordi di vite che concentrano conflitti, devastazioni ambientali, che sono cartine geopolitiche e sociali. Così una piccola comunità di pescatori che lotta per rimanere nei luoghi a cui sente di appartenere da generazioni si fa narrazione della Russia, delle sue politiche verso i paesi vicini – siamo dalle parti del Daghestan ma si avvertono anche rimandi alla Cecenia – e della propaganda putiniana alla nazione su economia e benessere stridente di fronte al quotidiano di persone come loro senza corrente elettrica né acqua. Il mare che è l’unica economia gli è proibito dalle pattuglie russe pena l’arresto se li trovano fuori a pescare, e con una certa regolarità sbarcano truppe d’assalto, uomini mascherati e armati, per controllarli.
Intorno un paesaggio magnifico che sembra contenere in sé il respiro della leggenda, sospeso quasi fuori dal tempo . (Ostrov – Lost Island di Svetlana Rodina e Laurent Stoop).

La «bolla» di un resort di lusso, quasi una cittadina a sé, in cui approdano pensionati americani middle class riflette quell’America che si è lasciata sedurre da Trump e dalle sue promesse: solo bianchi americani, nessuna preoccupazione – «Ho lavorato tutta la vita – è la frase che ripetono – ora voglio godermi il tempo che resta». Golf, feste, bar, serate danzanti – il film è girato prima del Covid, viene da chiedersi cosa sarà avvenuto nel frattempo – – questo villaggio super controllato da vigilantes che impediscono ai due registi di filmare – mentre i dirigenti rifiuteranno sempre di rispondere alle loro richieste di un incontro – ci dice con precisione anche della speculazione real estate che rosicchia da anni la terra e gli spazi degli abitanti soprattutto african american cacciati dalle loro proprietà per questa ricchissima aggressione immobiliare (The Bubble di Valerie Blankenbyl).

E se la parabola del Belarus Free Theatre – spesso anche in Italia con i suoi magnifici spettacoli – restituisce con chiarezza la battaglia contro il regime bielorusso di Lukashenko (Courage di Aliaksei Paluyan), la storia che scrive Aliona, una donna bielorussa su suo padre, avventuriero, fisico, sognatore scomparso nel 1995 al largo della costa turca, ci porta in una trama di memorie e di fantasie lontane tessuta dalla regista bulgara Elitza Gueorguieva attraverso la scrittura di Aliona, suo «alter ego» in un altrove molto vicino (Notre endroit silencieux).

Edna la protagonista del film di Eryk Rocha che porta il suo nome nel titolo è una figura quasi leggendaria: in sé e tra le pagine del diario che annota attraverso il tempo conserva la memoria della dittatura brasiliana e dei suoi massacri. Le tracce affiorano nei suoi ricordi e in quelli dei luoghi che abita, l’Amazzonia lungo l’autostrada della Transbrasiliana.
Padri, figli, viaggi: cosa appare del nostro tempo lungo le traiettorie di percorsi spesso con molti ostacoli? Karim Kassem si mette in viaggio da New York a Beirut, il Libano è il suo paese e nelle molte domande che sorgono nel tragitto – comprese quelle che riguardano un futuro film – appaiono diverse direzioni narrative e una riflessione sull’esistenza umana. Dall’Argentina a Taiwan, sulle tracce della loro famiglia si muove Juan Martin Hsu, The Moon Represents My Heart è un racconto famigliare e insieme la registrazione quotidiana di un incontro/scontro tra affinità e differenze. Lui e il fratello sono cresciuti a Buenos Aires che il padre aveva scelto tanto tempo prima, la madre è tornata a Taiwan, ha un altro compagno e non ha smesso mai di lottare. Lo fa da quando per la prima volta è arrivata in Argentina con un altro marito, senza parlare spagnolo e lavorando in un ristorante cinese. Poi il padre dei due ragazzi è morto, ucciso per ragioni poco chiare – mafia? regolamento di conti?

Anche la lingua sottolinea la distanza, i due ragazzi accusano la madre di non avergli insegnato abbastanza. E poi? I ricordi familiari si accumulano, trascinano la storia dell’isola, un nonno finito nelle persecuzioni dei nazionalisti di Chiang Kai-shek che quando arrivarono dalla Cina furono feroci contro la popolazione locale, un vero atto di colonialismo. E altre fughe, altri ritorni, un flusso che oscilla nel presente mentre scopriamo Taiwan oggi negli occhi di chi la conosce poco. Con la promessa del ritorno.