«A Classic Horror Story» è molto di più che una classica storia horror come invece il titolo suggerisce, ha al suo interno una pluralità di discorsi che i registi Roberto De Feo e Paolo Strippoli sviluppano seguendo un percorso ben preciso, quello di un viaggio on the road di cinque mal capitati, per poi scontrarsi con il vero protagonista: il pubblico. Attraverso i cliché del cinema horror e il folklore del sud Italia, i registi costruiscono una dimensione narrativa in cui lo spettatore è costretto a rispecchiarsi nelle sue paure e nei suoi pregiudizi.

Come nasce la vostra collaborazione?
Roberto De Feo: La collaborazione con Paolo è stata una casualità. Quando nel 2018 è arrivata la proposta di Netflix per questo film, ero impegnato nelle riprese di The Nest e per altre ragioni mi era impossibile accettare. L’unica persona che conoscevo e che aveva la visione giusta per portare avanti il film era Paolo. Poi il film fu rinviato per diversi motivi tra cui il Covid e ci siamo ritrovati con grande piacere a girare insieme, perché alla fine il film è un grande gioco da amanti del cinema horror. Siamo cresciuti prima come spettatori e poi come registi amando gli stessi film. La sceneggiatura è stata la parte più complessa da far combaciare, però alla fine un lavoro fatto con due visioni diverse ha dato grande ricchezza al film rendendolo originale.

Quante sceneggiature avete scritto prima di arrivare a quella definitiva?
Paolo Strippoli: Tante. La prima sceneggiatura l’ha scritta Roberto con Lucio Besana e David Bellini su cui Netflix ha chiesto delle modifiche perché il film era pensato per una produzione internazionale con attori inglesi e girato in Polonia. Poi volevano più italianità e questo ci ha permesso di fare un discorso metacinematografico italiano. Ci sono state altre nove stesure prima di arrivare sul set; in realtà meno se non fosse stato per il Covid che ha rimandato le riprese e ci ha dato la possibilità di lavorare ancora sulla sceneggiatura. L’idea di utilizzare la leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso è nata durante il lockdown ed è stata una fortuna perché all’inizio il mito dietro ai personaggi mascherati l’abbiamo costruito noi ed era meno interessante, più generico.
Forse è la prima volta che il tema della mafia è assorbito all’interno del genere horror.

RDF: Si è la prima volta che è utilizzata come nodo di un racconto horror o che si usano le figure dei padri fondatori della mafia come cattivi alla Jason o alla Freddy Krueger. Abbiamo scoperto le tre figure grazie agli sceneggiatori e a un monologo di Roberto Saviano in cui spiega cos’è la mafia partendo da Osso, Mastrosso e Carcagnosso che, come lui stesso dice, è una leggenda conosciuta solo dagli addetti ai lavori. Questa è stata sicuramente la scelta più giusta perché rende il film unico nel suo genere. Nonostante partisse da tanti cliché del cinema horror, il film trova la sua originalità proprio nel momento in cui incontra questo elemento, sia per il tema della mafia sia per la natura stessa del cattivo perché è collegato alla figura classica dell’italiano nel mondo: spaghetti, mafia e mandolino. Abbiamo voluto unire in maniera ironica i cliché del cinema horror con quelli dell’italianità all’estero creando un prodotto che sicuramente sta facendo discutere perché tutti si aspettavano o il classico film già visto che non racconta nulla di nuovo o il film italiano che alla fine rovina tutto perché sfrutta il cinema americano per cercare di fare qualcosa di nuovo che di nuovo non ha nulla.

Il film è molto complesso, infatti, oltre ai riferimenti al cinema di genere e alla mafia introducete una critica verso lo spettatore.
PS: La critica è il primo tema che il film ha sempre avuto, ancora prima della mafia e dell’italianità. L’idea della morte come elemento morboso, di fascino per lo spettatore è secondo noi il punto focale del film. Dopo che è stato introdotto il tema dell’italianità, abbiamo potuto fare un discorso che travalicasse il semplice aspetto umano: abbiamo cercato di fare un confronto tra quello che può essere il fascino per la morte e il dolore nello spettatore medio della tv e quello per il dolore e la violenza nel cinema. Abbiamo cercato di raccontare come paradossalmente sia più facile e giustificato per uno spettatore vedere il dolore e la morte reali rispetto alla violenza finta, innocua, in qualche modo più alta e interessante perché ha la possibilità creare un racconto cinematografico.

Ed è un grande paradosso perché la spettacolarizzazione del dolore esiste ovunque, ma in Italia il genere horror è guardato come un cinema di serie B perché la violenza splatter all’interno del racconto cinematografico è vista dallo spettatore in maniera sospetta; mentre davanti al telegiornale riesce a sopportare qualsiasi atrocità. A noi interessava questo paradosso e ci siamo chiesti se non è proprio questa la ragione per cui in Italia si è interrotta la tradizione che abbiamo avuto con il cinema horror fino agli ’80. Ogni volta che si prova a fare un film horror italiano, c’è un forte pregiudizio perché non si è più abituati all’Italia che fa horror. Lo spettatore è amante di un cinema horror d’oltralpe e oltre oceano con budget e possibilità diverse.

Il film si apre con un contrappunto tra immagine e suono, come avete lavorato con le musiche?
RDF: Sin dal principio volevamo creare un contrasto che comunicasse allo spettatore perché il film si chiamasse A classic horror story, quindi il primo fotogramma è il re dei cliché, cioè la testa di un cervo appesa a un muro, ma contemporaneamente attraverso la musica diciamo allo spettatore che probabilmente non è la classica storia horror. Per continuare questo gioco, oltre alla canzone di Gino Paoli, abbiamo utilizzato in una delle scene più cruente del film la canzone di Sergio Endrigo. Poi con Massimiliano Mechelli, autore delle musiche, abbiamo cercato di lavorare a una colona sonora che non fosse la classica colonna sonora horror fatta solo con tappeti di tensioni, ma di creare qualcosa di più ricercato attraverso strumenti nuovi. Massimiliano è stato bravissimo a toccare le corde giuste perché ha creato una colonna sonora inaspettata e coraggiosa. Era facile fare quello che si aspettavano tutti, la cosa difficile era trovare una soluzione completamente in contrasto che funzionasse lo stesso.

Come avete lavorato sui personaggi e sulla vostra Final girl?
RDF: Volevamo raccontare la storia di una ragazza succube della propria madre, una ragazza che non riesce a prendere delle decisioni da sola ma che sono imposte, come l’aborto giustificato dalla madre dal fatto deve lavorare. Durante l’arco narrativo Elisa mostra le sue insicurezze, segue le decisioni del gruppo, ma alla fine è costretta a reagire per difendersi da chi sta per ucciderla. In realtà non sapevamo quanto volessimo affrontare il tema dell’aborto, non volevamo assumere una posizione pro o contro, è semplicemente la storia che abbiamo dato al personaggio, come per Riccardo di essere un medico che ha perso tutto per un errore. Abbiamo dato a ognuno dei personaggi una storia con degli elementi difficili tranne che per la giovane coppia che rappresenta la tipica parte teen che Netflix chiedeva come elemento più leggero, infatti il film non vuole mai prendersi troppo sul serio.