Il tribunale di Mosca, con una sentenza ampiamente scontata, ha condannato all’ergastolo Zaur Dadayev, un ex ufficiale delle forze speciali in Cecenia e quattro dei suoi presunti complici per l’omicidio di Boris Nemtsov.

Nemtsov, leader politico liberale con spiccate simpatie per l’Occidentale, fu assassinato nel pieno centro di Mosca la sera del 27 febbraio 2015, mentre passeggiava con la fidanzata.

La sua morte provocò una ondata di commozione nell’opinione pubblica moscovita e alcuni adombrarono la possibilità che dietro il delitto ci potesse essere persino la mano di Vladimir Putin, anche se la stella di Nemtsov come leader di opposizione, era da tempo tramontata.

Tuttavia l’inchiesta e il dibattimento del processo hanno portato alla luce molti elementi che conducono direttamente al possibile coinvolgimento nella vicenda del Presidente della Repubblica cecena Razman Kadyrov, il discusso uomo di Putin nella regione noto per la persecuzione di attivisti dei diritti umani, per la conclamata omofobia e per aver introdotto la sha’ria nella regione.

Dadayev, in un primo tempo, ammise di aver ucciso Nemtsov insieme ai suoi quattro complici, tutti ceceni, in cambio di 15 milioni di rubli (poco più di 200 mila euro) ma poi ritrattò affermando che la confessione gli era stata estorta dalla polizia sotto tortura. Anche gli altri quattro complici si sono dichiarati dopo di allora innocenti.

Il presunto assassino si è quindi rifiutato di rispondere agli interrogatori e anzi, assieme ai suoi sodali, ha mostrato durante il dibattimento spavalderia e arroganza.

In mancanza di un chiaro movente e dei mandanti, gli investigatori cercarono di contattare a Grozny Ruslan Geremeyev, il capo di Dadayev quando questi era in forza nelle forze speciali, ma risultò non rintracciabile.

In seguito gli investigatori ipotizzarono nell’autista di Geremeyev, Ruslan Mukhudinov, l’organizzatore e finanziatore dell’omicidio, ma anche questi, guarda caso, riuscì ad eclissarsi.

Da allora di loro si sono perse le tracce. I giudici non hanno ritenuto comunque di portare i due sul banco degli imputati, seppure in contumacia, per insufficienza di indizi.

E così il processo, venendo a mancare dell’aspetto più propriamente politico, si è trasformato in una sequela di controversie tecniche in cui il collegio difensivo ha potuto sostenere che gli imputati sono in realtà dei perseguitati e ha annunciato persino di voler ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

I principali mass-media russi, e in particolare la TV, hanno relegato il processo a fatto di cronaca, riuscendo così a lasciare sullo sfondo il coinvolgimento di strutture dello Stato nell’azione criminale.

La famiglia e i sostenitori di Nemtsov si sono dichiarati insoddisfatti della sentenza: «In Russia e nel mondo si è convinti che l’omicidio aveva connotazioni politiche, ma gli investigatori hanno voluto negare l’evidenza – ha dichiarato la figlia di Nemtsov – mentre i giudici non sono stati in grado di definire quale sarebbe stato il movente», ha concluso la donna.

Da parte sua il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha commentato che «è necessario trovare e consegnare alla giustizia non solo gli autori ma anche i mandanti dell’omicidio» e ha aggiunto: «Egli (Putin, ndr) ha detto che si tratta di un’indagine molto difficile, ma questo non significa che si rinuncerà… In queste inchieste ci vogliono a volte anni».

Chi ha seguito nei decenni le vicissitudini dei processi ai crimini compiuti con il coinvolgimento di organi dello Stato in Italia, non avrà potuto che sorridere amaramente di fronte a tali affermazioni.