Alla Corte di Cassazione spetta il compito quest’oggi di chiarire una distanza che da sette anni abbondanti né la magistratura né tantomeno la politica o la diplomazia sono riuscite a ridurre. La distanza è quella che separa verità e giustizia nel caso di Andrea Rocchelli, il fotoreporter del Collettivo Cesura ucciso dall’esercito dell’Ucraina il 24 maggio del 2014 a pochi chilometri dalla cittadina di Slovyansk, nella regione del Donbass, assieme all’attivista russo Andrey Mironov.

I FATTI LI HA DESCRITTI con estrema precisione il tribunale di Pavia in primo grado, nel processo terminato con la condanna a ventiquattro anni di un uomo della Guardia nazionale, Vitaly Markiv, per il ruolo nel duplice omicidio.

Secondo le ricostruzioni, Rocchelli e Mironov sono morti per i colpi partiti dalle postazioni militari sulla collina Karachun, dalla quale, lo confermano i rapporti dell’organizzazione Human Rights Watch, erano frequenti nella primavera del 2014 gli attacchi ai civili che vivevano in quel momento in un territorio finito sotto il controllo dei ribelli. I due erano arrivati a poca distanza dalla collina a bordo di un taxi con il collega francese William Roguelon per testimoniare quel che accadeva in quei giorni in quella parte del paese.

«RAFFICHE PRECISE» di proiettili, è scritto nella sentenza, li hanno sorpresi al momento di lasciare il posto. All’arresto di Markiv, a Bologna, nel 2017, il Ros di Milano era arrivato dopo indagini complesse, rese ancora più difficili dai numerosi depistaggi delle autorità ucraine. Markiv, con doppio passaporto, italiano e ucraino, partecipò «attivamente» e «in concorso con altri», secondo la Corte, alle fasi che portarono alla morte di Rocchelli e di Mironov. La procura aveva chiesto diciassette anni. Responsabile, nello stesso procedimento, il tribunale ha giudicato anche lo Stato ucraino.

ERA IL 2019. La sentenza è stata accolta a Kiev come un episodio della guerra che si combatte ancora oggi nel paese.
Organizzazioni di estrema destra hanno manifestato più volte di fronte all’ambasciata italiana. Il ministero dell’Interno, affidato allora ad Arsen Avakov, che aveva costruito la Guardia nazionale includendo anche battaglioni paramilitari neofascisti, ha condotto una potente offensiva sul piano politico e mediatico per ottenere la liberazione di Markiv: attacchi diretti ai magistrati, pressioni sulle istituzioni, e sostegno a film-documentari con versioni alternative e poco credibili sullo sviluppo degli eventi. In questo modo il processo è diventato un caso diplomatico.

NEL 2020 LA CORTE DI APPELLO di Milano ha confermato per intero la ricostruzione dei fatti del primo grado, respingendo praticamente tutte le obiezioni sollevate in Ucraina, a partire dal presunto difetto giurisdizionale che avrebbe dovuto impedire il processo.

È stato riconosciuto il valore delle prove documentali raccolte nelle indagini, degli accertamenti sulle armi usate nell’agguato, degli esami balistici discussi in aula nel dibattimento. E sono state riconosciute come «pienamente attendibili» le testimonianze a carico della Guardia nazionale, a partire da quella di Roguelon, ferito alle gambe nell’agguato, che aveva indicato nella zona di Karachun l’origine dei colpi, così come le dichiarazioni di tre giornalisti italiani che dopo il duplice omicidio avevano ottenuto al telefono da Markiv una ammissione di responsabilità.

SU UN PUNTO SOLTANTO, uno, ma decisivo, la Corte di Appello ha eccepito: le deposizioni rese da otto colleghi di Markiv, deposizioni che hanno contribuito alla sentenza di primo grado e che il tribunale di Milano ha ritenuto «non utilizzabili» perché gli otto, secondo i giudici di Milano, dovevano essere sentiti «alla presenza di un difensore» dato che potevano esistere, «fin dall’inizio della loro deposizione, indizi di correità». La Corte non ha ritenuto di ordinare nuovi esami. Di conseguenza Markiv è stato scarcerato «per non avere commesso il fatto», un fatto di cui, tuttavia, la medesima sentenza conferma l’esistenza.

MARKIV HA FATTO RITORNO la notte stessa a Kiev su un volo di stato assieme all’ex ministro Avakov. Nella capitale è stato accolto come un eroe. Oggi ha il grado di sergente e lavora nella struttura di collegamento con gli apparati della Nato. La Federazione nazionale della stampa italiana, che si era costituita parte civile, e Articolo 21 sono tornati a chiedere nei giorni scorsi al governo di farsi carico della vicenda.

«Dopo sette anni e mezzo abbiamo la verità, non la giustizia», hanno detto i genitori di Andrea, Elisa e Rino Rocchelli assieme al loro avvocato, Alessandra Ballerini.