Su Catania piove sabbia nera, sono le polveri che l’Etna riversa sulla città. In questa atmosfera surreale e già carica di presagi, in una villa sulle pendici del vulcano, in un’ala da tempo abbandonata, viene ritrovato per caso il cadavere mummificato di una donna.
Da qui prende l’avvio il nuovo libro di Cristina Cassar Scalia, intitolato, non a caso appunto, Sabbia nera (Einaudi, pp. 395, euro 19). Pur non rappresentando l’esordio della scrittrice siciliana, che, tra l’altro, è anche medico oftalmologo, il romanzo è il suo primo poliziesco. Si tratta di un classico giallo della «camera chiusa», anzi, per meglio dire, un giallo della «camera chiusa» all’ennesima potenza.

IN QUESTO CASO, infatti, non solo il delitto è avvenuto in uno spazio chiuso e non è facile capire chi l’abbia commesso e, soprattutto, in che maniera. Il tutto viene reso ancora più complicato dal fatto che il cadavere viene ritrovato all’interno di un montavivande, per di più nascosto, e l’omicidio è stato compiuto oltre cinquant’anni fa. Chiamata a occuparsi del caso è una donna, il vicequestore Giovanna Guarrasi, detta Vanina, personaggio intrigante e davvero ben tratteggiato dalla scrittrice: amante della buona cucina e del cinema italiano – soprattutto dei film ambientati in Sicilia – testarda e sicura di sé, ma profondamente segnata da avvenimenti legati alla propria infanzia e al suo precedente incarico all’interno dell’antimafia. Così come risultano ben descritti gli altri personaggi sia dal punto di vista somatico – spesso l’autrice utilizza la somiglianza con attori in modo da rendere immediata la visualizzazione da parte del lettore – sia da quello caratteriale.

SPICCANO, NATURALMENTE, le figure più vicine alla protagonista: i componenti della sua squadra, il suo capo, la vicina, un vecchio poliziotto coinvolto nell’indagine (il delitto, infatti, sembra intrecciarsi con un altro omicidio avvenuto nello stesso periodo e nello stesso luogo) gli amici. Particolarmente riuscita, poi, la descrizione di Catania, dei suoi luoghi, della sua atmosfera. Così come la scelta della lingua usata, caratterizzata da frasi brevi e da uno stile incalzante, in grado di tener sempre viva la suspence e moderatamente contaminata dall’utilizzo del dialetto siciliano.
Il libro, insomma appare come un’ottima macchina narrativa di genere, molto piacevole da leggere. Quello che forse manca è quell’elemento che probabilmente lo snaturerebbe, spostandolo su tonalità più noir, ovvero una critica radicale alla società attuale che non si limiti, ad esempio, alla riflessione, da parte della protagonista, «che per ogni giorno che Di Stefano si è fatto a Piazza Lanza», cioè in prigione, «un delinquente vero è stato amnistiato per svuotare le carceri».