Esordio celebratissimo (dopo la vittoria al Sundance 2013, Cannes e una serie di premi critici autunnali culminati, il primo marzo, con quello di miglior primo film agli Independent Sprits Awards) Prossima fermata Fruitvale Station è una storia, strappata alle prime pagine dei giornali della città del suo sceneggiatore/regista, il ventisettenne Ryan Coogler, Oakland. Il titolo viene dalla fermata del treno (Bart) che collega San Francisco al maggior porto industriale della California del Nord, una delle aree metropolitane più etnicamente diverse degli States, con alle spalle una grande storia di attivismo politico (culla delle Black Panthers e, vent’anni dopo, di parecchi gruppi rap), ma anche teatro di scontri storici tra le forze dell’ordine e le comunità afroamerican e chicane.

Non a caso, in un arco di soli dieci anni, tra il 2001 e il 2011, la polizia locale ha pagato 57 milioni di dollari in indennità per abusi.

È sulla passarella di quella fermata della Bart che la notte di capodanno tra il 2008 e il 2009, Oscar Grant, di ventidue anni, dopo essere stato trascinato a forza fuori dal treno che lo stava portando a casa, è stato ucciso da un poliziotto delle ferroviaria.

Le prime immagini che si vedono nel film di Coogler sono quelle «vere», catturate dei telefonini degli altri passaggeri sul treno quella notte: un gruppo di giovani afroamericani appiattiti contro un muro e brutalizzati a manganellate da due agenti. Le ore che le hanno preceduto quel momento sono il cuore di Fruitvale Station, e un ritratto di Oscar (l’attore Michael B. Jordan, da The Wire; sarà la torcia umana nel prossimo Fantastici Quattro) – dolce, affettuoso figlio, fratello, nipote e padre di famiglia, ma anche ex pregiudicato pronto a ruggire come un leone e dimenticarsi quella dolcezza al minimo segno di minaccia. Quando lo incontriamo, diretto a comprare i granchi da friggere per il compleanno di sua madre (Octavia Spencer, che produce il film insieme a Forest Whitaker), Oscar sta cercando di «rigare dritto».

Contrariamente alla caricature del maschio afroamericano, solo, cresciuto senza famiglia, e che non ne ha creata una sua, Oscar è circondato da donne che gli vogliono bene e che tifano per lui. Lui le adora e mente per proteggerle –i soldi dell’affitto non li ha, nemmeno quelli per aiutare sua sorella che ha appena perso il lavoro; e il lavoro non ce l’ha più anche lui perché arrivava sempre in ritardo. Ma, pensa, troverà una soluzione. E rassicura tutti, come se niente fosse.

Si sa fin dall’inizio che questo melodramma «povero» ed elegante non prevede un happy ending. Ma Coogler evita con grande limpidezza di sguardo e di cuore i passaggi narrativi più scontati di questa «passione», gli eccessi di scrittura, la tentazione di agitare troppo la macchina per dare il senso di cronaca e di dramma.

Introduce invece, senza sentimentalismo, brevi momenti che danno il senso del personaggio – Oscar che solleva il cadavere di un cane appena investito da un auto e lo deposita con dolcezza su ciglio della strada, che telefona a sua nonna per farsi dare la ricetta del pesce fritto per una signorina bianca che ha un ospite afroamericano e non sa come cavarsela, che convince il proprietario di un bar già chiuso ad aprire perché la sua ragazza possa usare il bagno…- contro l’impersonalità orribile, ingiusta, della sua fine.