«Fare giustizia in fretta equivale a seppellire la giustizia», ha scritto Shahrukh Jatoi in una lettera al presidente della Commissione pakistana per i diritti umani. Così la stampa del Paese dei puri riassume il contenuto del documento con cui il ragazzo ha voluto denunciare il ruolo «nefasto» di giornali e televisioni nel riportare il processo che lo ha visto condannato a morte per l’omicidio a dicembre del 2012 di uno studente universitario a Karachi. La condanna alla pena capitale inflitta lo scorso 7 giugno dalla corte anti-terrorismo di Karachi a Shahrukh Jatoi e Nawaz Siraj Talpur non è stato un verdetto tra tanti. La sentenza è arrivata con inusuale velocità. I due condannati sono inoltre rampolli di due tra le più ricche famiglie del cuore economico del pakistano.

I fatti risalgono allo scorso dicembre. La vittima, Shahzeb Khan fu coinvolto in una lite con uno dei dipendenti di Talpur e del fratello. Nella città costantemente teatro di omicidi e segnata da violenze settarie e politiche, la morte di Khan, figlio di un funzionario di polizia, ha scatenato la reazione della classe media contro l’impunità delle élite e dei ricchi. A chiedere che ci si muovesse sono stati stampa e campagne online, divampate quando si seppe che all’inizio la polizia non aveva alcuna intenzione di aprire il caso, preso direttamente in mano dalla corte anti-terrorismo.

Anche Imran Khan, stella del cricket diventato un politico popolare quanto controverso, fece sapere la sua opinione e definì l’omicidio un «classico esempio del modo in cui le élite al potere violano la legge». La rabbia popolare aumentò con la notizia della fuga all’estero di Jatoi, poi costretto ad arrendersi dopo aver cercato riparo a Dubai, dove era scappato con un passaporto falso nonostante fosse iscritto nelle exit list di controllo.

Lo stesso Iftikhar Muhammad Chudhdry, a capo della Corte suprema e in prima fila nello scontro tra potere giudiziario ed esecutivo, si interessò alla vicenda sostenendo che prima di questo caso non c’era mai stata in Pakistan una reale speranza di giustizia. I condannati hanno fatto appello. Intanto negli editoriali che hanno accompagnato la sentenza si parla di lotta di classe. «Almeno per ora ad aver vinto metà della battaglia è stata la parte più debole», scrive il Tribune Express. Il paradosso, come in Bangladesh nelle manifestazioni laiche per chiedere le condanne dei collaborazionisti islamici con il Pakistan durante la guerra d’indipendenza del 1971, è che queste rivendicazioni passino per la pena capitale.