Fa discutere, e potrebbe avere risvolti molto significativi, il sequestro preventivo disposto nella giornata di ieri dalla Procura della Repubblica di Gela. Con l’accusa di omessa bonifica, reato previsto dall’art.452 ter del codice penale, la procura avrebbe riscontrato, mediante complessi accertamenti tecnici, la mancata attuazione e il mancato monitoraggio del progetto di bonifica delle acque di falda, all’interno dell’area dell’ex stabilimento petrolchimico di Gela. Si tratta di un progetto approvato dal ministero dell’Ambiente nel 2004, e al quale avrebbe dovuto provvedere Eni Rewind, la consociata del cane a sei zampe che si occupa, tra le altre cose, di realizzare le bonifiche, come scrive la stessa società, in «80 siti, di cui 17 ricadenti all’interno di 13 Siti di Interesse Nazionale (Sin)». Tra questi, appunto, c’è il Sin di Gela, riconosciuto dallo Stato «area contaminata» già nel 1998.

I sigilli sono stati apposti non solo alle aree destinate all’attuazione del progetto di bonifica ma all’intero ramo aziendale delle società Raffineria di Gela e Syndial Sicilia (che dal novembre 2019 ha cambiato denominazione in Eni Rewind). Il giudice per le indagini preliminari ha inoltre disposto la nomina di un amministratore giudiziario, che dovrà provvedere al completamento delle agognate bonifiche. Come spiega il procuratore Fernando Asaro, per attuare il sequestro preventivo basta il fumus commissi delicti, vale a dire la sussistenza di indizi che, nel caso specifico, erano ripetuti nel tempo. Già nel 2019 erano stati sequestrati 11 piezometri della rete di monitoraggio posta attorno all’impianto di trattamento delle acque di falda , per accertare una presunta contaminazione della falda acquifera. Si deve infine tener conto che allo stato attuale Eni è imputata in primo grado per disastro innominato presso il tribunale di Gela. «Si tratta di un procedimento particolarmente complesso che riguarda tutto ciò che era stato accertato a livello ambientale fino al 2015» spiega il procuratore Asaro. «La condotta contestata oggi, cioè la mancata bonifica delle acque di falda, era presente anche in quel procedimento. Siamo intervenuti, dunque, appurando che allo stato attuale persiste a giudizio della Procura la medesima condotta».

Dopo il sequestro della società che doveva restituire un territorio bonificato, la domanda è: nessuno si era accorto di questa mancanza nei 17 anni che sono intercorsi dall’approvazione del progetto? «Bisogna tener conto che le procure intervengono in presenza di una notizia di reato – spiega Asaro – Come è noto, Gela è un Sin da 23 anni. Ciò vuol dire che ci sono organi designati ad attività di vigilanza e prevenzione, dal ministero dell’Ambiente alla Regione Siciliana, che evidentemente non hanno svolto il proprio compito. Noi non possiamo che intervenire a fatto compiuto». Ad allargare ulteriormente lo sguardo è Emilio Giudice che, nella qualità di direttore della riserva naturale del Biviere (a due passi dall’ex raffineria Eni), partecipa da anni ai tavoli ministeriali sulle bonifiche. «Personalmente contesto quello specifico progetto da tempo, perché mirava a limitare i danni, contenendo al massimo il riversamento degli idrocarburi e dei metalli a mare, e non a tutelare l’aspetto ecologico delle acque e dell’ecosistema fluviale. Più in generale fa riflettere il fatto che a effettuare le bonifiche sia la stessa Eni alla quale vengono contestati i reati ambientali, mentre sull’aspetto della prevenzione enti come Ispra e Arpa sono poco coinvolti». In una nota l’Eni, «riservandosi ogni opportuna valutazione in sede processuale», sostiene di «avere sempre operato nel rispetto dei requisiti di legge».