A Budapest c’è chi prova sconcerto per l’esito del voto. C’è chi, prima della chiusura dei seggi aveva coltivato la speranza che l’elettorato o per lo meno una parte rilevante di esso, esprimesse una volontà di svolta, magari senza la pretesa di vincere, ma almeno di gettare il seme del cambiamento. Durante la giornata di domenica si sono intensificate sui network sociali le esortazioni ad andare a votare per non rinunciare a un esercizio di democrazia e per mostrare agli arancioni del Fidesz che c’è anche un’Ungheria diversa da quella vicina al governo. Foto che mostravano file di persone di fronte ai seggi hanno fatto il giro della rete e alimentato la speranza. I risultati di questa tornata elettorale hanno invece disegnato uno scenario ben diverso: quello di un paese ancora in mano all’esecutivo guidato da Viktor Orbán. Le cifre sono impietose: il Fidesz ha ottenuto circa il 49% dei voti seguito da Jobbik a quota 19,8% e dai socialisti (Mszp) alleati con Párbeszéd (Dialogo), con il 12,35%. Superano lo sbarramento del 5% Lmp (liberali verdi) e Dk (Coalizione democratica dell’ex premier socialista Ferenc Gyurcsány). Niente da fare per Momentum e per Kétfarkú, il partito entrato nell’agone politico con piglio satirico. Insomma, i sondaggi diffusi prima del voto avevano descritto bene i rapporti di forza tra le varie parti in gioco.

Diversi sostenitori dell’opposizione, però, dubitano che le elezioni si siano svolte in modo trasparente e chiedono un riesame del risultato elettorale. C’è anche una denuncia da parte dell’Osce secondo la quale la competizione non è stata equa. Al parere degli osservatori europei «la sovrapposizione dilagante tra lo Stato e le risorse del partito di governo hanno indebolito la capacità degli altri contendenti di competere sulle stesse basi». L’Odhir (l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Osce) punta il dito sulla sproporzione tra l’entità considerevole dell’investimento governativo, in termini di propaganda, e quella molto più modesta delle opposizioni che non dispongono degli stessi mezzi finanziari e mediatici. Mesi fa le stesse avevano previsto delle elezioni non libere né trasparenti.

Ma l’esecutivo festeggia sicuro del suo. «Questa vittoria ci permette di difendere l’Ungheria», ha commentato il primo ministro a caldo, nel discorso pronunciato di fronte ai suoi sostenitori in festa. La difesa del Paese da pericoli esterni costituiti dai migranti musulmani e da chi come Soros e la tecnocrazia di Bruxelles, secondo il governo, li vorrebbe a milioni in tutta Europa, è stato il laitmotiv di questi ultimi quattro anni. Gli altri pericoli potrebbero provenire da vari organismi internazionali che, a parere del premier, hanno fatto a lungo il bello e il cattivo tempo in Ungheria con l’acquiescenza se non addirittura la connivenza dei governi liberalsocialisti precedentemente al potere.

Da una parte si festeggia, dall’altra ci si deprime. Sempre sui social circolano i commenti sconsolati dei sostenitori dell’opposizione che esprimono forse più vergogna e sconforto che rabbia. «Eppure sembrava possibile ridimensionare il peso del governo», dicono alcuni, «eppure Orbán e i suoi, dopo la sconfitta di Hódmezovásárhely – tradizionale roccaforte del Fidesz – erano apparsi impensieriti», dicono altri. È vero che la retorica del primo ministro è sempre la stessa e si ripete stancamente, e che la propaganda governativa è da circa tre anni a questa parte monotematica: migranti e Soros, Soros e migranti. È inoltre vero che l’esecutivo sembra impegnato soprattutto a mantenere il potere e il controllo dei settori strategici della vita pubblica del paese senza beneficiarlo di un progetto sociale col quale migliorare veramente le cose. Ma è anche vero che dall’altra parte c’è un’opposizione frammentata, incapace di creare un fronte con il quale esprimere una proposta politica alternativa e credibile. C’è in essa un vuoto di programma causato probabilmente anche dal fatto che in tutti questi anni i partiti che la costituiscono si sono dovuti preoccupare della loro sopravvivenza a fronte di un governo che ha progressivamente occupato un po’ tutti gli spazi della vita politica e pubblica.

Tutto da rifare, insomma, per gli avversari di Orbán. Sia per i progressisti che per Jobbik il cui presidente Gábor Vona, si legge sul portale di informazione 444.hu, ha rassegnato le dimissioni. Una decisione dovuta alla sconfitta. Altrettanto hanno fatto, annunciano fonti locali, il presidente dell’Mszp Gyula Molnár, quello del partito centrista Együtt (Insieme), Péter Juhász, e il copresidente dell’Lmp, Ákos Hadházy.

Il successo di Hódmezovásárhely aveva alimentato le speranze, ma l’ampia coalizione comprendente centro-sinistra, liberali e Jobbik che aveva sostenuto il candidato opposto a quello governativo per la poltrona di sindaco, ben difficilmente si sarebbe potuta replicare a livello nazionale.

Tra vincitori e vinti non c’è dialogo e tra questi ultimi sono in molti a non voler accettare il dato di fatto. A ciò si aggiungono le denunce su come si è svolto il voto, sia in termini di trasparenza che in termini di pari opportunità. Sembra comunque che la voglia di reagire non manchi e per domenica 15 aprile è prevista una manifestazione di piazza che nelle intenzioni degli organizzatori è un’esortazione a non rinunciare alla democrazia e a opporsi al governo Orbán.