Il film scelto a rappresentare l’Italia dalla Settimana della critica, Non odiare, esordio di Mauro Mancini, declina con forza problematiche presenti nell’Europa contemporanea dove i rigurgiti neonazisti si fanno sempre più numerosi e lo fa a partire da un fatto di cronaca, il rifiuto di un medico ebreo di portare soccorso a un uomo visibilmente tatuato di svastica, lasciandolo morire. Il racconto si sviluppa con inconsueta sensibilità e rigore etico che ricorda una stagione di cinema presente nei paesi dell’est conclusa da tempo, dove storia, etica e introspezione coincidevano. In qualche modo conferma il regista: «Dicevo sempre ai miei collaboratori: dobbiamo trovare una sensibilità svedese, nordica, di rigore recitativo. Anche nella fotografia abbiamo cercato di fare un film che sia figlio di quella matrice cinematografica più nordica che mediterranea».

Che il film sia coprodotto con la Polonia non è secondario rispetto alla collaborazione artistica, con la fotografia di Mike Stern Sterzynski ad esempio.

Sapevo che avremmo girato a Trieste e mi piaceva che ci fosse un direttore della fotografia che utilizzasse quel tipo di luce, più nordeuropea che mediterranea. La produzione, Mario Mazzarotto, aveva già dei rapporti avviati con un coproduttore polacco, era una scelta che mi ha fatto molto piacere, una scelta inedita.

La luce, l’introspezione, certe riprese dall’alto ricordano quel tipo di sguardo.
Ci sono due cose che abbiamo sempre tenuto a mente mentre giravamo, una è quella della distanza, mi piaceva creare una distanza empatica dello spettatore rispetto ai personaggi, volevo che fossero coinvolti ma riuscissero a guardare ai personaggi con una giusta distanza. Le riprese dall’alto sono dei punti nella grammatica del film, appaiono negli snodi principali. Io e lo sceneggiatore non avevamo certo definito il film «di grande rigore morale» come Giona Nazzaro delegato della Sic lo ha definito in un’intervista, cosa che ci ha fatto molto piacere, ma avevamo cercato di non giudicare mai i nostri personaggi. Spero che emerga questo, perché il terreno in cui ci muoviamo è un nervo scoperto riguardo alle contraddizioni umane ed è un tema che sto esplorando anche nel secondo film che sto scrivendo. Questo è anche un film sul senso di colpa, a partire da quel gesto che fa Simone Segre (Alessandro Gassmann)quando decide di non soccorrere più quell’uomo a causa del segno che ha sul petto, la svastica quel simbolo di odio, simbolo del male. Quello che fa è in contraddizione come essere umano e come medico che contravviene al giuramento di Ippocrate.

Nell’episodio a cui si fa riferimento, però, il medico tedesco chiamava un altro medico per soccorrerlo.

Quella è la prima scena che abbiamo scritto e che mi ha fatto venire in mente tutto il film: lì succedeva che un medico si è rifiutato di operare per motivi etici un uomo che aveva un’aquila del Reich tatuata sulla spalla, noi abbiamo preso quell’episodio e lo abbiamo forzato sia narrativamente che moralmente perché il medico tedesco non aveva messo in pericolo di vita quell’uomo, noi invece abbiamo messo il nostro protagonista alle strette, dovendo decidere tra vita e morte. Sarebbe molto interessante se lo spettatore si trovasse a decidere sulla stessa questione. Alla domanda ’che cosa farei io?’ ancora oggi non ho saputo rispondere. Il passato di Simone è un passato di effetti di quell’Olocausto che come un’onda lunga si ripercuote ancora oggi, questo è un film che parla anche dell’onda lunga del male, di quanto faccia male ancora quell’eredità terribile che ci hanno lasciato quegli anni e quanto questo nervo sia ancora scoperto a tal punto che un uomo decide a causa di quel simbolo di fare quello che fa.

Un’altra cosa che colpisce è il passato oscuro dei vari personaggi, come quello del padre di Simone che il film in maniera appena accennata, suggerisce abbia influenzato i comportamenti del figlio.
Abbiamo lavorato per sottrazione, in alcuni casi togliendo le espressioni verbali, come nel caso della scena del cane: all’inizio c’era una battuta che poi abbiamo tolto in cui si diceva che «nessun animale è feroce di per sé, ma è feroce perché qualcuno gli ha insegnato la ferocia e lui restituisce quel male in altra forma». Questo è probabilmente quello che è successo tanti anni fa. L’essere umano di base non è cattivo, magari è istintivo, però se si mastica l’odio in qualche modo poi si restituisce odio. Questo è quello che succede a Marcello, filonazista come il padre. Nessuno dei nostri personaggi ha a che fare con il male originario, solo il padre di Simone che ha avuto a che fare con l’Olocausto e che non c’è più, gli altri sono tutti personaggi che hanno soltanto subito gli effetti di quel male e solo a causa di quello agiscono, tutti vittime e carnefici dello stesso male con il quale non hanno mai avuto a che fare direttamente. Tutto il disagio vissuto dal padre di Simone tornato dai campi di concentramento lo abbiamo dovuto raccontare in sole due brevi scene.

L’odio razziale contemporaneo è tutto di seconda mano, eppure è tutto così vivo e così concreto con i loro blitz e la politica. 
Quello che temo è l’intolleranza. Sociale, di genere, di razza, espressa attraverso il web e senza timore alcuno di essere tacciati di dire qualcosa di abominevole. Se ne sentono sempre più spesso, sono rivendicate come valori. Non volevamo lo stereotipo dell’uomo buono di origine ebraica e del ragazzo rabbioso figlio di quella matrice ideologica di ultradestra: soprattutto sono degli esseri umani e quando si parlano, anche se ringhiano uno contro l’altro, sono gli unici momenti in cui si comprendono. Una delle scene di avvicinamento è quella dei guantoni da boxe, lì si vede tutta la fragilità delle ideologie: se noi riuscissimo a parlarci come esseri umani e non da tifosi probabilmente ci capiremmo di più e scopriremmo che siamo molto più simili di quanto pensiamo. Poi c’è una matrice di odio originario che va condannata, quella svastica va condannata, come anche quello che ha fatto Simone perché un medico non può lasciare morire un uomo ed ecco che questi chiaroscuri vengono fuori perché nessuno è giusto nei confronti dell’altro. Abbiamo scritto questa storia cinque anni fa anticipando forse quell’ondata di eventi terribili che poi hanno scosso gli anni successivi. All’inizio spesso ci dicevano che questa storia non sarebbe stata così moderna, cercavamo di spiegare che il nostro non era un film sul nazismo, ma sugli effetti del nazismo. Invece Mario Mazzarotto, il produttore, ha avuto una grande intuizione nell’aver capito che la direzione in cui si andava era proprio quella.

Forse associavano il vostro alla lunga serie dei film sul nazismo. Cosa pensi di quei film?
I film storici sono doverosi perché danno informazioni su fatti che spesso vengono negati o ritenuti anacronistici. Noi siamo la nostra storia, non possiamo dimenticare cosa è successo, soprattutto ora: sono passati 74 anni dall’Olocausto e i superstiti stanno per terminare il loro corso vitale, quella memoria viva prima o poi scomparirà, non ci saranno più quelle persone che potranno parlare
degli eventi che hanno vissuto- Dobbiamo raccogliere quell’eredità prima che scompaia del tutto. Penso ai racconti di Liliana Segre e di molti altri superstiti, o a Pirmo Levi che ci ha lasciato meravigliose pagine. Quei testi vanno studiati, qualcuno deve ricordarci che esistono. I grandi film fanno questo, Schindler’s List è una pietra miliare. Il nostro film affonda le radici su quel tema ma non è su quel tema.

C’è un altro filone, quello della paura, che attraversa tutto il film e che è centrale oggi in tutta la società contemporanea. Nella tua filmografia uno dei tuoi primi corti «Il nostro segreto» è dedicato proprio a questo, la storia di un bambino che non ha paura di niente.
È un tema che mi interessa molto, perché penso che la paura muova gli esseri umani, si fanno delle scelte per paura, perché non si conosce. Le cose che non conosciamo ci fanno paura e questi personaggi sono mossi da un terrore di avvicinarsi all’altro

Interessante l’interpretazione di Gassmann in una parte per lui non così consueta

Mi rende un po’ fiero l’interpretazione sua e di tutti gli attori, Gassmann in un ruolo un po’ inedito, la bravissima Sara Serraiocco, Luca Zunic al suo primo film. Con lui abbiamo fatto un lavoro di sottrazione, fatto anche con gli altri personaggi ma con lui in particolare, che con uno sguardo, un respiro un piccolo gesto sa raccontare l’enorme disagio che vive dall’inizio alla fine. È un ruolo molto complicato. È misuratissimo,molto bravo. Si ritrovava quella distanza empatica che guidava quel personaggio. Gassmann mi scrisse: «ho letto il tuo film mi piacerebbe farlo» e quando ci siamo incontrati disse che uno dei motivi era che il suo personaggio parla pochissimo perché nei film lo fanno sempre parlare moltissimo. Le parole ti portano sempre altrove, uno sguardo ti porta ne punto giusto. Luka Zunic l’ho fatto vestire per un mese da Marcello perché altrimenti non avrebbe portato in maniera credibile quei vestiti, quegli stivali. Marica, la sorella, Sara Serraiocco, una delle nostre attrici migliori, è una donna fortissima che si carica una famiglia sulle spalle, ma ha un mondo interiore di cristallo che viene disintegrato. Proprio come tutti quegli oggetti di vetro che nel film si rompono.