Molti sono i modi in cui può nascere un’opera: nel chiuso di una stanza o di una biblioteca, in un ufficio anonimo, in un ampio giardino: quella, breve e fulminante di Juan Rulfo è nata probabilmente per le strade del Messico, tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta del secolo scorso. Prima di pubblicare i due libri che ne avrebbero fatto un riferimento obbligato della prosa in lingua spagnola del Novecento, Rulfo viaggiò infatti in lungo e in largo per la geografia messicana: inizialmente dalla provincia alla capitale per tentare, inutilmente, la via degli studi, poi, per mestieri diversi, dalla capitale ai quattro angoli di un paese sconvolto dalla improvvisa entrata nella modernità. Il futuro autore della Pianura in fiamme e di Pedro Páramo divenne in quegli anni l’agente, non sempre convinto, di un processo che stava trasformando un ordine antico, con tradizioni radicate da secoli in popolazioni che avevano resistito a molteplici terremoti e che l’economia sembrava stare spazzando via: fu un destino complesso quello di Juan Rulfo, e lo descrive bene Cristina Rivera Garza nel suo bel libro Había mucha neblina o humo o no sé qué (Random House México, 2016). Quel viaggiare si trasformò allora per Rulfo in un transito nello spazio e nel tempo, dando origine a una scrittura come non si era mai vista nell’America di lingua spagnola.

La narrativa messicana si era infatti già misurata con l’irrompere di un tempo nuovo, ma lo aveva fatto ricorrendo ai modi referenziali del realismo rurale, sebbene rivisto e corretto nei romanzieri della Rivoluzione o nei protagonisti dell’indigenismo. Rulfo non disconobbe quel vincolo, ma cercò ispirazione altrove, e mentre girava il Messico leggeva autori di paesi lontani, tutti alla ricerca delle radici delle proprie genti, e di forme espressive che superassero i lacci di un obbligato realismo; più tardi avrebbe ricordato il suo debito con autori come Leonid Andreev, Knut Hamsun, Franz Emil Sillanpää, Gerhardt Hauptmann, Halldór Laxness, Charles Ramuz, Jean Giono, senza dimenticare i più prossimi William Faulkner e Sherwood Anderson: una geografia letteraria inattesa, che copre l’Europa del Nord e gli Stati Uniti del Sud, terre di storie esasperate e di personaggi allucinati e memorabili.

Quei viaggi nelle campagne messicane condussero Rulfo all’invenzione di uno spazio finzionale peculiare, di natura quasi fantastica, ma trattato con il rigore del narratore realista. Nella prima stesura di Pedro Páramo, il protagonista del frammento iniziale, Juan Preciado,va a Tuxcacuexco, paese reale della Sierra meridionale di Jalisco, mentre nella versione finale il suo destino è Comala, villaggio che esiste solo sulla pagina scritta, pur rimanendo ancorato al reale. Il passaggio dal nome vero, di chiara origine indigena ma il cui suono è ancora di colore locale, a quello inventato segna – come ha notato Alberto Vital, fra i più importanti critici che si sono dedicati all’opera di Rulfo – il transito da una scrittura puramente referenziale a una letteratura che approda a nuove dimensioni immaginative, e la collega a una misura umana più intensa e universale.

Lo spazio immaginario diventa così spazio per il mito, dove si compiono la ricerca del padre, la discesa agli inferi, il sacrificio rituale, l’incarnazione della femminilità; ma in quelle terre il mito è destinato a spezzarsi, a disintegrarsi: il padre è morto da tempo, dal regno dei morti non si torna, il sacrificio diventa omicidio senza ragione, la donna ideale impazzisce e muore in silenzio. La scrittura di Rulfo diviene allora epitaffio per un mondo in via di estinzione, abitato ormai solo da ombre. E la sua narrativa si popola di personaggi fantasmatici, spesso senza nome, ma che mostrano tuttavia una tenace volontà di resistenza, esercitata attraverso l’instancabile lavorìo della memoria.

Nei racconti e nei frammenti del romanzo vengono infatti fissate azioni avvenute in un tempo fuori dalla storia (che ha luogo sempre altrove e solo di tanto in tanto si affaccia «sulle terre alte del sud») ma non per questo meno reali. I terribili e ripetuti omicidi dei racconti, la rapace lascivia di Pedro Páramo (e poi del figlio Miguel), la passione per Susana San Juan, irraggiungibile oggetto del desiderio, sono tutti eventi descritti nel loro doloroso compimento e con la lucidità di uno scatto fotografico, capace di bloccarli in una sorta di «movimento immobile».

D’altronde, quando lavorava come rappresentante della fabbrica di pneumatici Goodrich-Euzkadi, nel suo peregrinare per il Messico, Rulfo aveva anche imparato l’arte della fotografia: i suoi scatti in bianco e nero richiamano la forza visuale delle immagini sulle quali si struttura la sua narrativa, immagini che mostrano una forza eidetica senza riscontri nella letteratura messicana. Se qualche anno prima Agustín Yáñez aveva avuto bisogno di un prologo di venti pagine per descrivere il «paese di donne in lutto» che apre Al filo del agua – un capolavoro che andrebbe finalmente tradotto in italiano – a Rulfo sarebbero bastate poche righe per fissare le donne di Luvina, nel racconto omonimo, che vanno a prendere l’acqua all’alba: «Mi fermai sulla porta e le vidi. Vidi tutte le donne di Luvina con la loro brocca sulle spalle, con la testa avvolta dallo scialle, e le loro figure nere sul nero sfondo della notte. Le vidi ferme davanti a me, guardandomi. Poi, come se fossero ombre, iniziarono a scendere giù per la strada con le loro brocche nere.»

Il susseguirsi di queste immagini crea una sorta di sintassi visuale, con una capacità di trasmettere quegli elementi di conoscenza che permettono a Rulfo di plasmare il tempo narrativo come se fosse spazio e gli consente di rompere con la linearità cronologica. Nei racconti gli eventi saranno allora brevi episodi bloccati al di fuori del tempo storico, come istantanee fulminanti; e nel romanzo la costruzione per frammenti narrativi disposti senza un ordine temporale ricostruisce il lavoro della memoria, che non procede in modo diretto, ma attraverso tortuosi labirinti, resi ancora più confusi dal fatto che i ricordi emergono da fantasmi appartenuti a un mondo ormai scomparso. Il tempo conosce così una forma di «rattrappimento», e può essere restituito all’esperienza solo in schegge visuali, ancorate a un passato divenuto un presente eterno, come in un film in cui l’ordine delle scene non segue alcuna logica causale.

Uno spazio immaginario – spazio per la disintegrazione del mito – e un tempo esploso senza più ordine non ammettono il narratore tradizionale; reclamano invece una molteplicità di voci narrative, e anche quando si affaccia un narratore di forma più classica, è solo una voce in più che si aggiunge al coro indistinto. In Rulfo si legge dunque un inedito capitolo della moderna «scomparsa del narratore», ma questo non porta a forme di racconto oggettivate e asettiche, porta piuttosto all’emergere di una figura di «raccontatore», venuto fuori dalle locande rurali e scaraventata nella scrittura contemporanea: una voce narrante in prima persona spesso inaffidabile, faziosa, a volte ubriaca, che impone con forza il suo punto di vista, e che anche quando assume una voce più impersonale – come nella seconda parte di Pedro Páramo – lo fa solo per cercare di mettere ordine nella caotica cascata di ricordi delle voci dei morti di Comala.

Date queste sua fattezze, la scrittura è costretta a inventare un linguaggio che non può limitarsi a riprodurre la parlata dei contadini di Jalisco: in qualità di consulente della Commissione Governativa della diga del Papaloapan, Rulfo aveva ascoltato tutte le lingue originarie del Messico, i dialetti regionali, lo slang urbano, e a partire da queste frequentazioni aveva inventato un suo idioma che da un fondo ancestrale ascendeva a lingua letteraria. Una lingua fatta di laconismi, di non detto, di una paratassi a volte estrema, della mimesi di un’oralità che tuttavia non si parla in nessun luogo, di una poetica costruita sulla cancellatura, sull’eliminazione di tutto ciò che non è assolutamente necessario: quello di Rulfo è un linguaggio egocentrico, in grado di fornire lo strumento espressivo adeguato per soggetti narrativi che si muovono sempre dall’interno di sé stessi e poi vannno a toccare un punto esterno senza però volersi spingere più a fondo, come se oggetti, eventi, persone fossero già eloquenti di per sé, e dunque il resto fosse inutile ridondanza. Ma la lingua di Rulfo è capace di esprimere anche una ironia profonda, amara, a volte macabra, che diventa l’ultima forma di resistenza, l’arma per non soccombere alla morte onnipresente.