Dopo mesi di stordimento postpandemico, alla recentissima prima dell’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti al Teatro alla Scala è tornata «in scena» l’animosità del pubblico, che, non diversamente da quella che serpeggia per le strade, ha un’origine riconoscibile ma frequenza e intensità incomprensibili. Un’animosità concentratasi tutta sul giovane tenore Paolo Fanale, che nel curriculum vanta ingaggi al Met, all’Opéra di Parigi, al Covent Garden e alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino: il suo problema di salute, ci auguriamo momentaneo, non meritava tanto accanimento, ma la sua indolenza nell’intonare (sempre calando rovinosamente) i brani meno «topici» della partitura meriterebbe un sincero esame di coscienza. Altrettanto invadenti i «brava» tributati dalla claque anche in mezzo ai duetti a Benedetta Torre, che ha sostituito all’ultimo minuto l’indisposta Aida Garifullina, portando a casa una performance di tutto rispetto.

FANNO LORO COMPAGNIA Davide Luciano, come sempre energico, tornito e trascinante vocalmente e scenicamente, Giulio Mastrototaro, un Dulcamara buffo senza gigionismi, e Francesca Pia Vitale, una Giannetta delicata. Il giovane Michele Gamba, già assistente di Pappano e Barenboim, dirige cercando di aiutare un cast disorientato dalla petulanza del pubblico, perdendo qua e là qualche pezzo (il coro non sempre coglie le sue variazioni di ritmo «curative»), ma comunque tratteggiando un Elisir di mozartiana tenuità, convincente sul versante estatico-sentimentale, un po’ meno su quello festoso e paesano.
L’allestimento è quello del 1995 con le scene e i costumi di Tullio Pericoli, in cui si fondono tratti caricaturali alla Daumier, surreali alla Dalì, cromatici alla Chagall e la semplicità prospettica del Wanderbühne, la regia di Grischa Asagaroff, in cui la pantomima si sposa col teatro di rivista, e le luci meridiane di Hans Rudolf Kunz. Tutto è orientato a ravvivare la carica di freschezza trasognata grazie alla quale con questo «melodramma giocoso» Donizetti si proponeva di fondere l’italianissima commedia col dramma lacrimoso alla francese smarcandosi dall’ingombrante eredità dell’opera buffa di Rossini, i cui automi strappariso venivano umanizzati attraverso una riforma realistica della trama e una inusitata caratterizzazione selettiva sul piano melodico.

A NEMORINO, veicolo di gran parte del sentimentalismo dell’opera, invece del canto di agilità viene riservata una vocalità «spianata» eppure non facile, come ha dimostrato l’esito di Fucile; Adina alterna una linea di canto ricca di fioriture quando si mostra capricciosa e volubile e una cantabilità più lineare e malinconica quando si innamora; Belcore, militare vanaglorioso, si esprime in toni pomposi, su ritmi puntati, accompagnato da musiche marziali. Dulcamara è l’unico che, con la sua eloquenza truffaldina modulata in un canto prevalentemente sillabico, rientra nella tradizione dell’opera buffa.