Omara Portuondo, oggi novantunenne, si esibisce in pubblico dall’età di 15 anni. Nella sua vita non si è fermata un attimo. È una cantante leggendaria la cui voce riflette una lunga verve creativa, fatta di passione e musica. Ha cantato per più di settant’anni, e mentre le rivoluzioni e le guerre hanno scosso il mondo, ha continuato, con indomita eleganza, a mettersi davanti a un microfono con un velo colorato in testa, immancabilmente fregiato da una farfalla in tono. Lo spartiacque di notorietà dell’operazione Buena Vista, non le ha tolto un briciolo di entusiasmo produttivo e da quelle session di metà anni Novanta, unica donna in mezzo a un manipolo di amici e colleghi maschi, ha messo in fila almeno un’altra ventina di album e un numero consistente di tour mondiali. Omara è nata nel barrio di Cayo Hueso, all’Avana, noto per la sua febbrile attività musicale. Ci fu all’epoca un grande scandalo in famiglia. Sua madre Esperanza Peláez proveniva da una ricca famiglia di origini spagnole che presumeva avrebbe sposato un uomo ricco e bianco, con un’alta posizione sociale. Invece Esperanza scappò con un giocatore di baseball nero alto, bello, chiamato Bartolo Portuondo. Per anni non hanno potuto camminare per strada in pubblico, ma il matrimonio è durato. Bartolo era amico del poeta nazionale Nicolás Guillén e amante della musica e la casa, priva di un grammofono, era piena di canti.

Cosa ricorda di Cayo Hueso, il quartiere della sua infanzia?
Ho bei ricordi di quel periodo, i miei genitori, i ragazzi con cui giocavo all’aperto… Era un tipico quartiere operaio, con tante famiglie che trascorrevano del tempo insieme, nelle case, mentre noi bimbi giocavamo sempre in strada, a palla. Ricordo il lustrascarpe che stava all’angolo e il droghiere che dava da mangiare a mia madre, visto che a quel tempo non avevamo soldi.

Suo padre era un grande giocatore di baseball ed ha viaggiato molto all’estero quando lei era bambina. Quanto è stato importante vivere in un contesto così aperto al mondo nella sua formazione professionale?
Sono stata estremamente fortunata a vivere in un ambiente familiare accogliente. Nonostante le difficoltà che i miei hanno avuto per far accettare il loro matrimonio dalla famiglia di mia madre, che si opponeva alla relazione, sia mio padre che mia madre ci hanno sempre sostenuto, hanno riempito me e mia sorella di affetto e amore. Mio padre era anche un grande appassionato di cultura ed è stato molto importante nella mia formazione e mi ha iniziato alla musica.

Cos’era il movimento del «filin»?
Era un genere musicale esploso a Cuba negli anni Quaranta. Comprendeva nomi come José Antonio Méndez, César Portillo de la Luz, Rosendo Ruiz Quevedo, Frank Emilio, Elena Burke e io a un certo punto ero nota come «la novia del filin» (la fidanzata del filin, ndr). È stato attraverso Eva Martiatu che ho conosciuto molti artisti che facevano parte di questo movimento, spinti da giovani che all’epoca ascoltavano la radio ed erano influenzati da Glenn Miller e dalle orchestre jazz dell’epoca. Deriva dalla parola inglese «feeling» che spagnolizzammo (se così posso dire) in «filin», il sentimento.

Cuarteto de Orlando de la Rosa, Las Anacaonas, Las d’Aida, più tardi l’Orquesta Aragón: quale di questi gruppi in cui ha militato ricorda con più affetto e riconoscenza?
Orlando de la Rosa è stato per me un maestro. In un programma radiofonico mi dissero che mi avrebbero fatto un provino per entrare nel suo quartetto, dal momento che Elena Burke voce ufficiale del combo fino a quel momento era appena partita per un tour in Messico e dovevano sostituirla. Nell’audizione ho cantato con Adalberto del Río, Aurelio Reynoso e Roberto Barceló. Orlando de la Rosa era una persona e un musicista eccellente. Al ritorno dai tour, Elena ed io venimmo entrambe sostituite nel Cuarteto. Così insieme a mia sorella Haydée abbiamo deciso di tentare la fortuna con altre formazioni. Elena propose ad Aida Diestro un quartetto vocale misto, ma Aida organizzò un quartetto femminile, completandolo con la voce di Moraima Secada. Ognuno aveva la sua personalità e il suo colore. Ho un profondo rispetto per quel progetto.

Si sente più a suo agio nei tempi lenti o in quelli con una forte carica ritmica?
Beh, mi piacciono di più quelli con un buon imprinting ritmico, anche se ovviamente i tempi lenti, anche in quanto esponente del movimento filin, non sono mai mancati.

Le canzoni che lei canta sono strettamente legate anche a delle figure di danza, a balli. Lei stessa ha iniziato la sua carriera come ballerina nel club Tropicana a L’Avana. Quanto è importante l’interpretazione fisica di un corpo che balla sulle sue musiche?
Fa parte dell’interpretazione. È vero, ho iniziato al Tropicana grazie a mia sorella che ballava lì e aveva anche un gruppo chiamato Las Mulatas de Fuego. Io l’accompagnavo sempre alle prove. In uno dei giorni di prova c’era una ragazza che non aveva memoria coreografica e le dissero che non poteva lavorare. Dopo un po’ è venuta la responsabile del teatro e mi ha chiesto se potevo coprire io il suo ruolo. Al ritorno a casa, Haydée raccontò tutto a mia madre, che non fece una piega e disse semplicemente che potevo accettare la proposta perché sapevo ballare. Io ero un po’ preoccupata di andare sul palco con gli abiti di scena e ricordare ogni mossa, ma quando sono uscita è andato tutto bene e mi sono divertita molto.

Pochi sanno che nel suo primo album da solista, «Magia negra», c’erano anche dei pezzi jazz, di Duke Ellington in particolare. Quanto è stata importante l’influenza di questo stile nella sua formazione?
Scoprire il jazz è stato uno shock culturale: canzoni con arrangiamenti complessi, organici potenti e pieni di swing. Grazie a quel grimaldello ho scoperto anche il blues e il ragtime. Tutti i movimenti culturali fanno bene alla musica e alla tua crescita come persona e come artista.

Qual è stato il musicista più incredibile e talentuoso con cui le è capitato di duettare?
Mi metti in difficoltà, sono tutti importanti: Nat King Cole, Ibrahim Ferrer, ce ne sono tanti e vorrei citarli tutti. Benny Moré – con cui ho cantato con l’Aida Quartet – Silvio Rodríguez, Pablo Milanés, Elena Burke, Moraima. E ne mancano ancora molti: Rosita Fornés, Alejandro Sanz, Natalia Lafourcade… ho profondo rispetto e riconoscenza per tutti loro.

È passato un quarto di secolo dal film e dal disco del «Buena Vista Social Club». Le ha cambiato la vita? È solo un ricordo felice? Una benefica avventura?
Ovviamente fa parte della mia carriera e mi ha riempito di bei ricordi, esperienze e incontri speciali. Era e continua ad essere, anche ascoltato oggi, un progetto molto vivace che ci ha portato ad esibirci alla Carnegie Hall e davanti al presidente Obama alla Casa Bianca. La cosa più bella è stata vedere come intere generazioni siano venute ai nostri concerti e abbiano apprezzato la musica cubana, la nostra cultura.

Ci racconta un aneddoto di quel periodo?
Indubbiamente il concerto alla Carnegie Hall è stato lo zenit di quel progetto. Ricordo i minuti prima di salire sul palco, ero molto spaventata e mio figlio è venuto a dirmi di uscire dal camerino e salire sul palco. Io esitavo per la paura, lui mi ha dato una piccola spinta da dietro per farmi salire gli ultimi scalini sul proscenio. Ho approfittato di quell’aiutino e il concerto si è trasformato in un’apoteosi…

Qual è la canzone interpretata nella sua lunga carriera che la rappresenta meglio?
Veinte años è il brano che mi è stato chiesto di interpretare più spesso. L’ho vista come una circostanza simbolica perché è un brano che cantavo fin da bambina e in giardino con i miei genitori. Ho avuto l’opportunità di incontrarne l’autrice, María Teresa de la Vera, quando avevo circa 14 anni. Mio padre conosceva molta gente dello spettacolo e della scena culturale de L’Avana. Mi portò con sé a una cena e conobbi Maria Teresa de la Vera. Così, ogni volta che canto quel brano, mi ricordo di lei e di mio padre.