Il piccione blu (o goura Victoria) è un uccello della Nuova Guinea in via d’estinzione, ma c’è anche il levriero, la tartaruga marina, il canguro, l’orso polare, il salmone, la zebra… tra felci, campanule, cactus, strelitzie, coralli, frutta e verdura: un rimescolamento di flora e fauna al di qua e al di là dell’equatore, sulla terra e nelle profondità del mare. Elementi fondamentali all’interno dei quindici tableaux che Omar Victor Diop (Dakar 1980) ha chiamato Allegoria (2021).

L’ispirazione, anche in questa nuova serie di autoritratti, è dichiaratamente tratta dall’iconografia tradizionale sebbene riformulata in una chiave decisamente più contemporanea. Intanto, la fotografia è complementare al disegno, esattamente come gli occhi chiusi o aperti dell’artista che, allo stesso tempo, è regista e attore. Indossa il blazer rosa, la felpa bianca e più spesso il boubou tradizionale con il turbante o la chéchia, ai piedi sneakers e babouche.

Creare una distanza tra ciò che compare in primo piano e il fondo compatto (prevalentemente monocromatico) è anche una strategia narrativa nel lasciar sospeso il racconto in un più ampio spazio temporale. Poi, però, quel tondo o quell’ovale che incapsulano l’autoritratto ripropongono uno stile più antico, l’idea stessa della cornice. Espedienti che non tradiscono l’urgenza da parte di Diop di evidenziare le contraddizioni e le criticità dell’oggi, soprattutto in relazione ad una natura contaminata dall’uomo, fragile e indifesa, in Africa ma anche altrove.

È con queste fotografie dalla notevole forza seduttiva che si apre il volume Omar Victor Diop (2021), prima monografia dedicata al fotografo senegalese pubblicata da 5 Continents Editions in coedizione con la galleria parigina Magnin-A.

«Un’avvincente continuazione di Diaspora e Liberty,» – scrive Renée Mussai nel testo a sua firma (gli altri autori sono Imani Perry e Marvin Adoul) – «Allegoria chiude il cerchio della serie, ancorando saldamente le riconfigurazioni meticolosamente create da Diop in questo momento presente, invitandoci a pensare criticamente sulla giustizia ambientale, sull’antropocene e sulle nostre responsabilità collettive e individuali nell’assicurare un futuro più fattibile e vivibile». Victor Omar Diop assorbe la lezione dei fotografi africani di studio, in particolare Malick Sidibé, Seydou Keïta e Samuel Fosso, ma aggiunge spesso nell’inquadratura un «quid» ironico. Laureato all’École Supérieure de Commerce di Parigi, ha lavorato in Africa per la British American Tobacco mettendo da parte la carriera nella comunicazione aziendale per dedicarsi esclusivamente all’arte, soprattutto dopo il grande successo ottenuto nel 2011 ai «Rencontres de Bamako».

Per la «quadreria» di Diaspora, ad esempio, indossava i panni di personaggi vissuti in epoche diverse, tutti con un profilo biografico reale, ma parzialmente dimenticati dalla storia. Tra loro El Moro, Dom Nicolau, Albert Badin, Jean-Baptiste Belley, Kwasi Boakye, Don Miguel de Castro, Angelo Soliman ed altri ancora. Personaggi maschili black che hanno attraversato oltre cinquecento anni di storia coloniale, riuscendo a scalare le vette del successo. Tra notabili, rivoluzionari, filosofi, ingegneri e pittori c’è persino un santo: San Benedetto Manassari (detto anche Benedetto il Moro è uno dei patroni di Palermo), vissuto nel XVI secolo ma canonizzato solo nel 1807.

«Durante la ricerca sulla rappresentazione degli africani nella storia dell’arte europea, ho scoperto che molti dei personaggi ritratti erano nati schiavi ed erano stati portati in Europa durante l’infanzia.» – afferma il fotografo – «La loro storia inizia in una maniera molto oscura, ma durante la loro esistenza sono riusciti ad elevarsi, arrivando a vivere a stretto contatto con re e regine. Erano rispettati e talvolta persino temuti, tuttavia nella storia successiva sono stati quasi completamente dimenticati. Interpretarli è stata un’opportunità per farli riscoprire.

Attraverso il mio flash li riporto in vita, contribuendo in questo modo a riflettere su temi di grande attualità come l’identità e l’emigrazione, così come su tutto ciò che l’Africa e gli Africani hanno dato all’intera umanità». Introducendo nell’inquadratura elementi che creano un cortocircuito visivo come il pallone di cuoio, la coppa, il cartellino rosso con il fischietto, i guanti o le scarpe da calcio, Diop stabilisce un nuovo collegamento tra passato e presente.

«Al giorno d’oggi il campo in cui gli africani emergono maggiormente è il calcio. Molti provengono da situazioni svantaggiate ma sono diventati delle star. Mi piace giocare su piani differenti e confondere l’osservatore».