Un poliziotto incorruttibile e di umili origini; una mente sopraffina e criminale, votata al terrorismo islamico. Sullo sfondo, la società pachistana contemporanea finalmente restituita con complessità e stratificazioni, in grado di superare la nomea unidimensionale di «stato canaglia» spesso affibbiata senza troppi complimenti alla Repubblica islamica.

Questi gli ingredienti che alimentano il motore narrativo di Lancio a effetto (pp. 256, euro 15), secondo romanzo di Omar Shahid Hamid, tradotto egregiamente da Giovanni Garbellini – specie nelle annotazioni dei termini in urdu – per Metropoli d’Asia. Hamid, già caso letterario nel subcontinente col suo romanzo d’esordio The Prisoner (2013), vanta una biografia dolorosamente adeguata all’indagine dell’estremismo islamico anche in ambito letterario: il padre Malik, direttore della Karachi Electric Supply Corporation, fu assassinato nel 1997 da un membro del Muttahida Quami Movement, formazione politica vicina all’estremismo islamico, evento che spinse il giovane Omar a entrare nelle forze dell’ordine, divisione antiterrorismo.

Dopo 17 anni di servizio, minacciato di morte dai Taliban pachistani, nel 2011 Hamid decide di prendersi un periodo sabbatico, tornando in servizio a Karachi solo a fine 2016 in qualità di sovrintendente di polizia presso il Counter Terrorism Department (Ctd) pachistano.

DISMESSA temporaneamente la divisa, Hamid ha messo al servizio della narrativa le conoscenze da «insider» maturate nell’antiterrorismo pachistana, aggiungendoci una certa abilità nell’organizzazione di «crime stories» dal ritmo serrato e fortemente aderenti alla cronaca criminale del Pakistan.
Così i personaggi principali di Lancio a effetto, il sovrintendente Abbasi e il terrorista Sheikh Ahmed Uzair Sufi, sono di fatto la trasposizione letteraria di Sanaullah Abbasi, agente antiterrorismo molto noto nella provincia del Sindh, e Omar Saeed Sheikh, terrorista britannico di origini pachistane autore, tra le altre, del rapimento e omicidio di Daniel Pearl, giornalista del Wall Street Journal, nel 2002.
Abbasi, per effetto di un tipico scaricabarile subcontinentale, si ritrova insignito della responsabilità di sorvegliare, in un ex istituto agrario dismesso nella campagna pachistana, il pericoloso terrorista Sufi appena trasferito dalla prigione di Hyderabad (dove il terrorista in carne ed ossa Sheikh tuttora risiede).

SHEIKH AHMED UZAIR SUFI, o meglio Ausi, nomignolo con cui era conosciuto ai tempi del college, deve essere tenuto in isolamento totale, evitando ogni contatto umano che possa dargli l’opportunità di mettere in pratica doti affabulatorie che, nel carcere di Hyderabad, per poco non hanno portato a un ammutinamento collettivo dei celerini, stregati dalla retorica del prigioniero. Esca cui Abbasi abbocca attratto dalle vicende pre-terroristiche di Ausi, svelate da una serie di lettere scambiate in gioventù tra il prigioniero e i migliori amici del college esclusivo – La Scuola – frequentato dal giovane: Sana, affascinante «prima della classe» lontana anni luce dallo stereotipo della «brava ragazza musulmana» ed Eddy, rampollo di miliardari e asso del cricket.
Imboccato da Ausi, Abbasi si lancia alla ricerca delle missive tra i tre, che l’autore utilizza per far emergere l’umanità di un personaggio archetipo della disumanità criminale, colpevole del rapimento e della decapitazione, ripresa in video, di una giornalista occidentale incinta. Il carteggio tra i tre post-adolescenti, con i loro amori non corrisposti, il senso di spaesamento dell’emigrazione di lusso accordata alla meglio gioventù pachistana spedita nelle università statunitensi, la disillusione dell’esperienza politica di Ausi – che per ristrettezze economiche deve rinunciare a una borsa di studio oltreoceano – e la passione per il cricket, aiutano Hamid a delineare delle circostanze plausibili che possono spingere, nel romanzo come nella realtà, un ragazzo di buone speranze tra le braccia dell’estremismo militante. Fino a trasformare un ragazzo come tanti in un mostro che, parafrasando le parole del padre di Ausi – tragica figura tra le più riuscite del romanzo -, «distrugge tutto ciò che tocca».
Il crescere della curiosità per il compimento della metamorfosi criminale di Ausi è degno del «binge watching» da serie tv e compensa alcune soluzioni narrative piuttosto banali o, purtroppo, non sviluppate come avrebbero meritato: su tutte, il mancato approfondimento dell’ispettore Shahab, personaggio promettente eppur sbrigativamente accantonato nella narrazione.

PRESI DALLA FRETTA di scoprire la conclusione delle indagini del sovrintendente Abbasi, sarebbe un peccato soprassedere ad alcuni passaggi illuminanti delle «confessioni» di Ausi, utili per orientarsi anche nella cronaca del terrore di questi tempi.
Hamid mette in bocca al terrorista delle ammissioni pesanti che, in clima di islamofobia diffusa, contribuiscono a slegare l’Islam dalla condotta criminale degli estremisti: la crescente efferatezza dei crimini di Ausi non ha nulla a che fare con la religione, ma risponde invece alle aspettative di sostenitori e aspiranti terroristi smaniosi di arruolarsi sotto il comando del leader più ambizioso, più carismatico e più senza scrupoli in circolazione. La descrizione, per filo e per segno, della lotta tra le varie sigle del terrorismo islamico attive in Pakistan negli ultimi anni.