Da diversi anni è reperibile su Youtube Incontro con Don Cherry, un programma in bianco e nero a cura di Franco Fayenz realizzato dalla Rai nel 1976: Cherry risponde ad alcune domande, e cantando e suonando pocket trumpet, flauto e donso ngoni (strumento a corde delle confraternite dei cacciatori in Mali e Guinea) si esibisce col suo gruppo di allora, un quartetto con la moglie lappone Moki Cherry al tanpura, il brasiliano Nana Vasconcelos al berimbau, alle tabla e ad altre percussioni, e l’italiano Gian Piero Pramaggiore alla chitarra acustica e al flauto.

LO STUDIO è allestito con i bellissimi arazzi di stoffa di Moki Cherry, che fanno da fondale al concerto: tra gli altri si riconosce quello – con scritto «Om Mani Padme Hum», uno dei più popolari mantra del buddismo tibetano – che è stato riprodotto sulla copertina dell’album di Cherry Brown Rice. All’inizio della performance Cherry, che indossa un abito pittoresco, indica su un drappo alle sue spalle un altro mantra, «Om Shanti Shanti Shanti Om»: è l’invocazione («shanti» in sanscrito significa «pace») con cui comincia il brano che apre lo speciale. Nell’ultimo pezzo compaiono anche Neneh Cherry, all’epoca dodicenne, che suona dei sonagli e partecipa al coro, e Eagle-Eye Cherry, sette anni, che canticchia e percuote uno degli strumenti di Vasconcelos; e ad un certo punto Neneh, Moki e Don lasciano i loro posti e coi loro abiti esotici si mettono a ballare in primo piano.

ORA i tre quarti d’ora di musica di Incontro con Don Cherry sono diventati un album, Om Shanti Om, pubblicato (in vinile e cd) dall’etichetta italiana Black Sweat Records, che ha ottenuto di accedere al master originale della Rai.
Non è un po’ paradossale ricavare da un documento del genere un album? A maggior ragione se si tiene conto della forte componente visiva dell’arte di Don Cherry di quel periodo: gli arazzi, che venivano installati sui palchi su cui Cherry si esibiva; la musica eseguita per lo più da seduti, accovacciati per terra, ad accentuare il senso di una pratica comunitaria, e di una dimensione cerimoniale, più che di concerto; la stessa intestazione «Organic Music Theatre» sotto la quale il gruppo di Cherry in quella fase si presentava: con moglie e figli piccoli sotto i riflettori pareva una generosa declinazione – ricordiamo una folgorante esibizione al festival del jazz di Alassio del 1973, con Neneh e Eagle-Eye anche loro sul palco – dell’antico anelito delle avanguardie al superamento della separazione tra arte e vita. Senza neanche dire del magnetico candore di Cherry in scena, della bellezza del suo viso, della dolcezza ieratica del suo modo di fare.

No, non è affatto paradossale. Perché se questi aspetti non erano gli ultimi fra i motivi della suggestione dell’arte di Don Cherry di allora, e se la sua proposta aveva una forte pregnanza nel suo insieme, Om Shanti Om ci porta a focalizzarci sull’ascolto, e a constatare che a prescindere dai deliziosi teatrini, al netto di tutto il resto, la musica di Don Cherry di quei tempi bastava e avanzava di per sé, e mostrava anche tutto un suo rigore.

DAGLI ULTIMI anni sessanta Cherry era uscito da un ambito esclusivamente jazzistico e aveva sviluppato uno straordinario nomadismo estetico e culturale, anche alla ricerca di un più sereno equilibrio esistenziale. Quella dei gruppi con cui Cherry negli anni settanta si indirizzò più risolutamente in questa direzione è la parte della sua produzione che – se non lasciò indifferenti tanti giovani sensibili ai temi della controcultura – è stata più sottovalutata o decisamente disprezzata dalla critica ufficiale, ed è anche non abbastanza documentata.

Prima di Om Shanti Om nessun album testimoniava per esempio di questa formazione ridotta all’osso, che rappresenta uno dei momenti di più drastico allontanamento di Cherry – al di là di qualche intervento alla pocket trumpet – dalla logica e dall’estetica del jazz, a favore di un radicale, visionario, sognante neofolclore universalistico, multiculturale, che anticipa prepotentemente la world music dei decenni successivi: e poca della world music che ha poi praticato l’incontro di culture diverse lo ha fatto con la poesia e la limpidezza che rendono questa musica – che rappresenta meravigliosamente un’epoca – ancora così attuale.