Nel gergo urbano di Parma ancor oggi «capannone» designa una persona rozza, incivile e maleducata, di origini popolari e dalle condotte equivoche. Avendo perso il referente concreto, non tutti, specie fra i più giovani, conoscono le ragioni di questo singolare attributo. Un pregevole volume, riccamente illustrato con fotografie d’epoca, aiuta a ricostruire la genealogia della «triste metonimia», come l’ha efficacemente definita una delle autrici, Ilaria La Fata (I capannoni a Parma. Storie di persone e di città, a cura di Margherita Becchetti e Paolo Giandebiaggi, Mup, pp.208, euro 20). Con una traslazione non infrequente, la natura del «contenitore», i «capannoni», abitazioni poverissime costruite in squallide zone periferiche della città dal Comune fascista, è ricaduta sul «contenuto», la popolazione che le abitava, a sintetizzare un repertorio di stereotipi negativi che evocavano la sporcizia, l’ignoranza, la scarsa moralità e l’attitudine a comportamenti devianti.

IL LIBRO avrebbe dovuto accompagnare una grande mostra sui «capannoni», prevista per la scorsa primavera e rinviata per l’emergenza epidemica. Restituisce i risultati di una ricerca collettiva durata anni, che ha coinvolto diversi soggetti (Università, Centro Studi Movimenti, gli archivi cittadini) e ha goduto del supporto economico di svariate realtà. Si tratta di un’esperienza esemplare perché rompe la separatezza dei due approcci alla storia della città, quello degli architetti e degli urbanisti, attento alle strutture materiali e agli attori istituzionali, e quello degli storici, centrato sulle popolazioni, sulle relazioni sociali e sui conflitti. Ed è «esemplare» anche perché il percorso potrebbe essere ripetuto in altri contesti: la storia a cui fa riferimento, nonostante le indubbie specificità parmigiane, si è ripetuta spesso negli anni Trenta, fra sfratti ed espulsioni e case «minime» e «popolarissime», basti pensare alla vicenda forse più nota, quella delle «borgate» di Roma (Luciano Villani, Le borgate del fascismo. Storia urbana, politica e sociale della periferia romana, Ledizioni 2012).

Sin dai tempi in cui Parma era ancora la capitale di un antico Ducato, l’ampio territorio perimetrato dalle mura rinascimentali ospitava due città, che nell’Ottocento andarono sempre più separandosi e polarizzandosi. Al centro borghese si affiancavano periferie popolari, con il caso estremo del quartiere dell’Oltretorrente, collocato anche fisicamente sull’altra sponda del fiume Parma. I progetti di riqualificazione dell’area si susseguirono lungo tutto il secolo, sempre con esiti modesti, anche quando l’allarme sanitario sembrò rendere urgente un intervento, per spegnere i focolai epidemici che si accendevano inevitabilmente in isolati sovraffollati e privi di acqua potabile e fognature. Come ricostruito in una precedente ricerca da una delle curatrici (Margherita Becchetti, Fuochi oltre il ponte. Rivolte e conflitti sociali a Parma (1868-1915), DeriveApprodi 2013, recensito su queste pagine da Roberto Bianchi e Santo Peli il 4 ottobre 2013), l’Oltretorrente divenne dopo l’Unità uno spazio sovversivo, sede di frequenti tumulti e di radicamento per le nuove forze anarchiche, socialiste e sindacaliste-rivoluzionarie. Il quartiere entrò nel mito dell’antifascismo popolare quando resistette in armi, caso quasi unico, all’assedio delle squadre fasciste nel 1922.

Il regime non perdonò l’Oltretorrente ma, come opportunamente argomenta William Gambetta, alla repressione affiancò due ulteriori operazioni: da un lato, un tentativo di pacificazione e conquista del consenso nel quartiere; dall’altro la «bonifica», cioè la trasformazione fisica e sociale dello spazio. Che non si trattasse solo di un provvedimento «risanatore» era evidente: Paolo Giandebiaggi e Virginia Villani ricordano che fra tutti gli isolati insalubri, gli unici a venire demoliti («sventrati» nel crudo lessico ottocentesco) furono quelli del quartiere già ribelle. Gli espulsi rimasti senza tetto, oltre 600 famiglie, furono destinati, fra 1929 e 1935, a ventisette nuove costruzioni dal nome inequivocabile: «capannoni». Avrebbe dovuto essere una sistemazione temporanea, ma non perché dettata dall’emergenza, nell’attesa cioè di poter tornare nel quartiere di origine: al contrario, la povertà abitativa e la segregazione in sette luoghi periferici e marginali avrebbe dovuto sollecitare, nelle intenzioni del fascismo parmigiano, una ulteriore «spontanea» dispersione della popolazione; sulle macerie dei vecchi e fatiscenti isolati dell’Oltretorrente sorsero invece case per la piccola borghesia. In assenza di alternative, migliaia di persone si trovarono intrappolate, loro malgrado, in affollati e malsani dormitori privi di servizi e uniti alla città da strade in terra battuta. La separazione dal tessuto urbano decretò l’identificazione, tutta negativa, fra fabbricati e abitanti. Come spesso accade, il rifiuto di una situazione vissuta come ingiusta non impedì un’assunzione in positivo dello stereotipo da parte della popolazione. E alla disoccupazione e alla miseria rispose anche un diffuso impegno antifascista, come rivelano le carte di polizia.

NEL DOPOGUERRA i «capannoni», simbolo del degrado sociale e della perversione delle politiche fasciste, avrebbero dovuto essere demoliti, ma la mancanza di risorse rimandò al 1956 l’avvio del processo. Nel frattempo gli stabili furono restaurati e dotati di gabinetti, acqua corrente ed elettricità. Con lo sviluppo economico giunsero anche i primi elettrodomestici e qualche automobile. Gli abitanti erano in gran parte quelli originari, trattenuti dai bassissimi canoni di affitto e ancora stigmatizzati, per un motivo (la microcriminalità) o per l’altro (la militanza a sinistra). Chi riusciva a trovare un’alternativa, nelle case popolari dei nuovi quartieri edificati a ridosso dei «capannoni» abbattuti, veniva talora sostituito da nuovi immigrati, dalle campagne parmensi o dal Mezzogiorno. Fino a quando, dopo la fuoriuscita degli abitanti residui, gli ultimi «capannoni» in zona Castelletto furono rasi al suolo nel 1970.