Dormono sulla collina di Clos Salembier, tra i marmi bianchi di Prazeres e i colori del Maramures, nel buio profondo di Rochereau, in riva al mare della Sardegna, accanto ai vivi di una metropoli del Vicino Oriente. Dormono ad Algeri, Lisbona, Sapinta, Parigi, Tavolara, Il Cairo. Erano madri, padri, bambini, giovani, vecchi, belli, brutti, buoni e cattivi, felici e infelici. Di mestiere facevano tutti gli infiniti mestieri codificati o inventati dall’umanità. Il 29 maggio di cent’anni fa, sulle pagine della rivista Reedy’s Mirror di Saint Louis, Missouri, Edgar Lee Masters iniziò a raccontare, in forma di poesia, il popolo silente di quella che sarebbe divenuta L’antologia di Spoon River, data alle stampe nel 1916. Masters, figlio di un avvocato e in seguito avvocato lui stesso, si era trasferito con i genitori dal Kansas all’Illinois. Prima a Petersburg e poi a Lewistown. Fu proprio Lewistown a fornirgli l’ispirazione tra le tombe del cimitero di Oak Hill, accanto al quale scorreva lo Spoon River. Dunque non una grande città, al contrario un mondo fisicamente ristretto. E quindi ancor più immediatamente rappresentativo delle categorie in cui ogni comunità si divide o viene divisa in base a regole scritte e non scritte. Sovente crudeli, assai di rado benevole. Va detto che Masters scrisse i suoi versi guardando più al Sangamon River che allo Spoon. Ma 53 poesie traggono spunto da nomi delle regioni di Petersburg, 66 a nomi della regione dello Spoon. Le tombe appartengono a Petersburg, la collina è quella di Lewistown. La prima poesia pubblicata dal Mirror fu, appunto, La collina, apertura dell’Antologia e sguardo d’insieme su coloro che erano diventati polvere. ‘Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley’. Dormono sulla collina il debole sconfitto dalla febbre, il minatore bruciato in una galleria, il buffone ucciso in una zuffa, l’ubriacone marcito in galera, il rissoso caduto da un ponte. ‘Dove sono Ella, Kate, Lizzie ed Edith’. Uccise da un aborto clandestino, da un amore infelice, dalla violenza di un uomo in un bordello, da un’esistenza sbandata e lontana. Lo sguardo mette a fuoco tanti altri nomi incisi sulla pietra, ultimo quello del violinista Jones, che aveva giocato con la vita fino a novant’anni senza pensare ‘Né all’oro, né all’amore, né al cielo’. A La collina seguono 244 liriche, per un totale di 248 personaggi, che hanno avuto prima e impareggiabile traduttrice in Fernanda Pivano, cui le fece conoscere Cesare Pavese. Vennero pubblicate nel marzo 1943 da Einaudi, e sfuggirono alla censura fascista grazie a un titolo, Antologia di S. River, dove la esse puntata stava per un mai esistito San River. Tuttavia, a libro in circolazione, Fernanda fu arrestata e incarcerata. Aveva tradotto da un idioma straniero in odio al regime, idee sovversive quali il rifiuto della guerra, la difesa dei deboli, la critica al capitalismo, lo sbeffeggio dei potenti, i diritti delle donne… Quando Fabrizio De André, nel 1971, depose sul terreno della musica una pietra miliare, Non al denaro, non all’amore, né al cielo, Fernanda immaginò per le pagine che accompagnavano il disco un’intervista a Lee Masters. Ne riportiamo un passo significativo rispetto al senso di queste nostre pagine. Pivano «Come ti è venuto in mente di scrivere l’Antologia di Spoon River?» Lee Masters «Mentre facevo l’avvocato a Chicago e mi aggiravo nei tribunali e frequentavo la cosiddetta società, giunsi alla conclusione che il banchiere, l’avvocato, il predicatore, le antitesi del bene e del male, non erano diverse nella città e nel villaggio. Cominciai a sognare di scrivere un libro su una città di campagna che avesse tanti fili e tanti tessuti connettivi da diventare la storia del mondo intero».

La storia del mondo intero, avevi ragione tu, Edgar, è frammentata nelle dimensioni di centinaia di migliaia di cimiteri. A loro non si può assegnare l’aggettivo grande o piccolo. Sono semplicemente la memoria del luogo cui stanno accanto. Lapidi, loculi, monumenti, mucchi di terra senza più alcuna forma, fiori freschi e di plastica, foto dissolte, ghiaia o polvere dei viali, frasi scolpite nel profondo del dolore, li ritrovi in ogni angolo del mondo, con le differenze di credo religioso e di latitudine, di cultura e di cerimonia di congedo. Ma, di nuovo avevi ragione tu, Edgar, le storie di chi li abita sono repliche, interpretazioni, varianti, su un copione universale. Non esiste altro luogo meglio di un cimitero, capace di raccontare una città (un paese) nella sua dimensione quotidiana, nel suo passato discosto dai grandi avvenimenti, dall’arte con la a maiuscola, dai palazzi nobiliari. Il sentimento semplice di un cimitero non va cercato al Père Lachaise di Parigi, allo Staglieno di Genova, al Monumentale di Milano, per citare solo alcuni tra i più famosi. Lì è memoria illustre, processione di devoti a Jim Morrison e Auguste Apollinaire, ad Annamaria Ortese ed Edoardo Sanguineti, a Walter Chiari e Anna Kuliscioff. Bisogna, invece, perdersi tra nomi e cognomi anonimi, mestieri e professioni consueti, facce di uomini e donne incorniciate in cravatte e merletti di abiti da festa, sorrisi di bambini. Il viaggio dentro un cimitero non infonde mai tristezza. Una volta usciti, ci si accorge di essere più pronti a comprendere il passato e il presente di una città, di un paese. È questo il compito che si prefigge l’anomala guida a seguire, cominciando da Algeri. Al cimitero coloniale di Clos Salembier, quartiere di Hamma, bisogna arrivarci in taxi, troppa la distanza dal centro. È il più grande cimitero coloniale del Maghreb: ventimila sepolture per una Spoon River africana che raduna i suoi defunti sotto la lastra di semplici tombe, dentro cappelle di ogni dimensione e stile, nel rettangolo dei loculi, sotto una gobba di terra sormontata da una croce. A Clos Salembier non esistono fiori di stagione davanti o sopra le lapidi. Quelli che compongono le corone o trovano posto nei vasi sono fatti di ceramica dipinta. Come se chi li ha deposti sapesse che un giorno sarebbe partito, senza possibilità di tornare. Il tempo di Algeri coloniale attraversa un secolo e mezzo. Di questo tempo sono stati testimoni imprenditori, missionari, medici, operai, impiegati, funzionari, figli di buone famiglie, militari. Chissà chi era quel ragazzo elegante, la muffa sul granito ne ha cancellato il nome sotto l’ovale della foto in bianco e nero. Un anno meno di sessanta è durata la vita di Etienne Mazoyer (1872 – 1931) cui la classe operaia d’Algeria ha dedicato la lapide con busto. Croci in fila le tombe dei soldati uccisi durante la prima e la seconda guerra mondiale. ‘Da quando i suoi occhi si sono chiusi, i nostri non hanno smesso di piangere’, così i suoi cari ricordano Ascension Vacquer, nata il 21 aprile 1897 e morta il 21 luglio 1921. L’immagine la ritrae, ragazzina vestita alla moda, su una sedia davanti alla casa algerina. Clos è un immenso tappeto di verde, pietra, ruggine, macerie, ferro contorto, oblio, sdraiato sulle pieghe dolci di una collina. Il mare lo sbarra, il silenzio lo separa da una città ostaggio quotidiano di un traffico senza sosta. Clos è poesia a più mani e più voci.

«Bene, bene, disse il taxista. Ora deve indicarmi la strada. È facile, dissi io, entra nel Largo Camões e lì dove c’è la gioielleria Silva, prende quella strada in discesa, è la Calçada do Coimbro, poi prende la Calçada da Estrela, quando arriva al Largo da Estrela infila la Domingos Sequeira fino a Campo de Ourique, lì deve cercare sulla sinistra la Saraiva de Carvalho che ci porta dritti al Largo del Cimitero dos Prazeres…. Il Largo era deserto e gli zingari dormivano per terra… La Vecchia Zingara accese un sigaro e aspirò il fumo… ‘Vedo che vai a fare visita a una persona… puoi dire al tassì che ti sta aspettando che ti lasci qui, anche la persona che cerchi sta qui vicino, oltre il portale’. Fece un cenno verso il cimitero… Attraversai il portale ed entrai… Cercai la prima Campata Destra e cominciai a percorrerla con passo incerto… Era una tomba modesta, appena una lapide poggiata sul terreno. Lui stava lì col suo nome polacco, e sopra al nome c’era una fotografia che riconobbi.. Quella foto l’avevo scattata io nel millenovecentosessantacinque». Il romanzo Requiem, di Antonio Tabucchi (1992), porta l’io narrante attraverso una Lisbona estiva e torrida, e di quei percorsi fa parte anche il Cemitério dos Prazeres. Il tragitto in taxi può diventare una lunga e bellissima passeggiata. Prazeres fu costruito nel 1833 come cimitero pubblico per accogliere le migliaia di morti durante l’epidemia di peste che in giugno aveva colpito Lisbona. La sua collocazione nella parte occidentale della città, dove sorgevano i quartieri dell’aristocrazia, ne fece un cimitero di elite: materiali e decori preziosi, sculture funebri eleganti, cappelle imponenti. Abbondano i simboli riconducibili alla religione, alla massoneria, alle confraternite, alle casate nobiliari. Dal 25 marzo 2012, vi riposa Antonio Tabucchi. Il paese di Sapinta, nel distretto di Maramures, Romania, dista pochi chilometri dal confine ucraino. Siamo in Transilvania, ma Sapinta non deve la sua fama a Dracula e ai vampiri di ultima generazione. Bensì al Cimitirul Vesel, il Cimitero Gioioso: recinto per decine di sepolture sormontate da lapidi, croci, targhe, tabernacoli, in legno dipinto a tinte squillanti. I cari estinti sono ritratti negli abiti da lavoro, a mezzo busto con il cappello in testa, accanto a un trattore, con il cesto delle verdure sottobraccio, su un prato pieno di fiori. Chi furono, cosa facevano nella vita, quali i loro pregi e difetti, lo raccontano vignette, brevi testi, considerazioni. Qualche esempio: ‘Io giaccio proprio qui, mi chiamo Popo Ileana. Nel matrimonio ben non sono stata e mio marito male mi ha trattata’. ‘Io riposo qui e mi chiamo Braieu Toader. Finché sono stato in vita, molte cose mi piacevano. Bere e mangiare bene, e alle donne stare assieme. La vita ho amato molto finché a baciare sono riuscito’. ‘Mi chiamo Stan Ion Patras. Male a nessuno ho voluto. Povera vita mia, quanto difficile sei stata con me’. Fu proprio Patras, scultore, a ideare per sé la prima tomba gioiosa. Era il 1934. Vita difficile, caro Patras, con una trovata geniale a concluderla.

‘Fermati! L’impero della morte è qui’. Chi pensa che la frase sia tratta da un filmone catastrofico ambientato su qualche pianeta, commette un errore. La poco rassicurante frase campeggia sopra uno degli ingressi sotterranei dell’Ossario di Parigi, piazza Denfert-Rochereau. La sua costruzione risale alla fine del ’700 e nel corso dei secoli ha accumulato oltre sei milioni di ‘pezzi’ fra tibie, peroni, stinchi, costole e, soprattutto, teschi. Spettacolino macabro, non c’è che dire, eppure affascinante. L’Ossario fa parte di una fitta rete di tunnel che i parigini chiamano ‘le catacombe’, le cui origini affondano (verbo appropriato) in epoca romana. Dopo la visita, ordinare una bistecca al tavolo di un bistrot sa di cannibalismo. L’isola di Tavolara, nord della Sardegna, vista dalla terraferma, è spoglia, imponente, scoscesa. Con l’arrivo della notte, solo un paio di luci segnalano che lì qualcuno ci vive. Ma solo durante l’estate, a parte i militari della base Nato che dagli anni ’60 del secolo scorso ne occupano la parte più bella. Chiuso nel perimetro di un basso muretto a secco, il cimitero di Tavolara è fatto di poche tombe. Tutte portano lo stesso cognome: Bertoleoni. Il capostipite Giuseppe approdò dalla Maddalena sull’isola nel 1807, con la sua amante Caterina, sorella minore della moglie. Costruì una casa, seminò legumi e verdure, fece il pescatore e il cacciatore ogni volta che veniva a trovare Caterina. Due cuori e due capanne, un’esistenza a dir poco dura. Non certo degna di un re, contrariamente a quanto è scritto sulle lapidi di tutti i discendenti maschi e primogeniti dopo Giuseppe I: Paolo, Carlo I, Carlo II. Dal 1839 ad oggi, perché Tonino è l’attuale sovrano, nonché proprietario dell’unico ristorante dell’isola. Quel che successe chiedetelo a lui. Sarà ben lieto di raccontarvi di quando Carlo Alberto arrivò a Tavolara per una battuta di caccia alle ‘capre dai denti d’oro’, era il 1836… La meta finale di questo anomalo baedeker porta al Cairo; entra dentro una realtà che ben dimostra quanto la paura occidentale della morte sia qualcosa che in altre parti del mondo e in altre religioni non esiste. Al-Qarāfa, la Città dei morti, ha una superficie di dieci chilometri quadrati e un milione di abitanti. Tutti vivi e vegeti. È divisa in quartieri dove edifici pubblici, abitazioni e tombe si spartiscono gli spazi. Al-Qarāfa è il cimitero pubblico musulmano più antico del Cairo e di tutto l’Egitto. Al-Qarāfa è un autentico capolavoro di arte, architettura, tradizione funebre popolare. Al-Qarāfa è voci, odori di cibo e di spazzatura, lavoro, miseria gestita con dignità. È vita terrena parallela a quella, se ci credi, di chi un giorno ha chiuso gli occhi e non li riaprirà.

 

Fabrizio De André

È il 1971 quando Fabrizio De André mette su vinile quello che, insieme a La buona Novella, uscito un anno prima, ha fatto la storia della sua musica, delle sue idee, del suo ‘essere contro’: Non al denaro, non all’amore, né al cielo, ispirato all’Antologia. Nove i brani, trentuno i minuti della durata totale, Nicola Piovani al posto di Gian Piero Reverberi per le musiche. Reverberi abbandonò a causa di contrasti con Roberto Dané, produttore del disco insieme a Sergio Bardotti. I testi videro la collaborazione di Giuseppe Bentivoglio, già coinvolto da De André nell’album Tutti morimmo a stento (1968). La generazione del ’68 arrivò a leggere e amare L’antologia di Spoon River anche a grazie a Faber. Fernanda Pivano mise sulla carta che accompagnava il vinile un’intervista al cantautore. Tra le sue domande, una riguarda le nuove generazioni «… Hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a ‘comunicare’. Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora così attuali, specialmente tra i giovani?». De André risponde «Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne temi che si adattassero ai tempi nostri…». Pivano «… Le grosse manipolazioni che hai fatto sui testi sono state come delle operazioni chirurgiche per rendere il libro attuale, contemporaneo?» Faber «Sì, addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli dalla piccola borghesia della piccola America e inserirli nel nostro tipo di vita sociale». I nove brani, incentrati sue temi fondamentali, l’invidia e la scienza, sono La collina (The Hill), Un matto (Frank Drummer), Un giudice (Selah Lively), Un blasfemo (Wendell P. Bloyd), Un malato di cuore (Francis Turner), Un medico (Siegfried Iseman), Un chimico (Trainor), Un ottico (Dippold), Il suonatore Jones. Quest’ultimo, per ragioni di metrica, diviene nel disco un suonatore di flauto anziché di violino 

Mostra Spoon River Pordenone

Spoon River, 10 artisti per Edgar Lee Masters, fino al 31 ottobre, è l’omaggio di Pordenone al centenario dell’Antologia. La mostra, curata da Marco Fazzini, utilizza per i pannelli descrittivi la traduzione di Fernanda Pivano. Al centro della Sala Esposizioni della Biblioteca Civica, le terracotte di Paolo Annibali dedicate a Dorcas Giustine e a Emily Sparks. Poi il George Gray di Agostino Arrivabene, tre interpretazioni oniriche messe su legno con olio e smalti. ‘Henry mi rese madre/ pur sapendo che non potevo creare una vita/ senza perdere la mia’. L’epitaffio di Amanda Baker vede la donna camminare lungo una moderna strada metropolitana grazie al pennello di Aurelio Bulzatti. I versi de La collina vengono interpretati trasversalmente dall’olio su tela di Stefano Di Stasio. Protagonista il poeta Shelley, che riposa nel cimitero Acattolico di Roma. Sullo sfondo la Piramide, sepolcro di Caio Cestio risalente al Primo Secolo d.C. Le Anime nella sera, di Nicola Nannini sono un corteo funebre che scorre attraverso i campi, perso nel silenzio e nei ricordi. Altrettanto significative le opere di Franco Dugo, Nicola Lazzari, Giuseppe Modica, Roberto Rampinelli, Fulvio Rinaldi. Info: comune.pordenone.it/biblioteca