Ci si chiede talvolta cosa resti di una visione, di un film, nel momento in cui, alla fine, se ne faccia una rapida sintesi per darne conto; in quell’intervallo che è il pensiero, quell’interruzione (tutta umana, mentale) del fluire naturale, continuo delle immagini che è l’universo, per restare alle teorie più suggestive della critica novecentesca.

CE LO SI CHIEDE una volta di più durante un film come Human Flowers of Flesh di Helena Wittmann passato in concorso a Locarno, mentre scorrono sullo schermo non storie, semplici narrazioni, ma sostanze, cose, strati e strati di materia cinematografica in fermentazione. Ecco, anziché trame, meri racconti, così evanescenti, così passibili di dimenticanza, restano le forme, forme piene di cinema, piene di quelle forze invisibili (la vita, la dinamica, ingiunzioni o latenze di luce) che si sono ossificate nelle sagome, nelle cose dell’immagine. Così il cinema di Helena Wittmann resterà nell’immaginario, c’è da esserne certi, almeno in quello legato ai festival vista la difficoltà ad attirare le distribuzioni, allo stesso modo in cui vi rimane Herzog (quello più sperimentale dell’Ignoto spazio profondo e di lì a ritroso fino a Fata Morgana), Antonioni, Bresson, Angelopoulos o, al di là dei classici, Weerasethakul, Lav Diaz, Lisandro Alonso. Cinema di apnee e odissee, come già in Drift, che aveva fatto conoscere Wittmann al pubblico veneziano qualche anno fa: una specie di monodia marina, di oltranza e sbaraglio del segno-cinema a cavallo – e al di là, questo è il punto: il superamento della natura da parte del segno – della marea, dell’ondeggiamento ossessivo, a tratti oppressivo.

LO SGUARDO della regista tedesca resta stupefacente, nel senso che continua a stupirsi del prodigio del filmare: non di quello che si filma, o non solo, ma di come lo si filma, in modo tale che le cose riprese in piani-sequenza o da angolazioni di un certo tipo o intrise di musica, siano cose estetiche, pura fibra cinematografica, qualcosa che brulichi sospeso in un interregno, a metà strada tra natura e scrittura, che inizi come cosa della natura per tramutarsi ed elevarsi in segno, cosa sopra-naturale. E allora si spiega così l’attenzione alla Legione straniera, coronata alla fine con l’apparizione di Denis Lavant, una delle più straordinarie apparizioni dell’attore francese: è l’attenzione per l’irrequietezza di fondo che muove i miliziani (vaganti come spettri, come esalazioni di calore sorte dalle sabbia del deserto, la Fata Morgana del finale), magari quelli meno giovani, ammantati di una patina romantica; un senso di inappartenenza, di estraneità rispetto a un luogo specifico, che li portano ad errare per il mondo, così che la macchina da presa per seguirne le tracce in realtà segue le multicolori, poliedriche tracce del mondo così scoprendolo, facendone poesia. Un ragno che tesse la tela intorno a un bozzolo; il moto inveterato di microbi ialini; il sobbalzo delle onde che all’improvviso si tramuta in apnea, in azzurro profondo, astratto, prima di scoprire la coltre di fiori marini sulla pelle di un rudere, quella che Manganelli chiamerebbe «imprevista geometria vegetale». La monodia del mare di Drift si è tramutata in polifonia del mondo, sinfonia che a un tratto fa l’ennesimo scarto, sorprendente, esaltante, verso l’elettronica (ancora, dalla natura alla sopra-natura), un vero e proprio breakbeat, nella sequenza più bella del film e tra le sequenze più abbaglianti viste negli ultimi anni: il ballo sul ponte della nave al ritmo ipnotico, arcano, delle musiche di Nika Son.
È l’ennesima geometria, l’ennesima cifratura – in un film in cui non c’è un’inquadratura che non riveli l’intimo rapporto, quasi aritmetico, esistente tra gli spazi, il rapporto sempre dinamico, dialettico tra sfondo e primo piano – l’ennesimo picco estetico del film, che immerge gli esseri in un’atmosfera di sogno, tant’è che – invertendo gli addendi del discorso e restando inalterato il risultato – vengono in mente le parole di Cristina Campo quando scrive che «l’altro mondo cui alludono le fiabe, i sogni, le poesie, non è che questo mondo, però decifrato».