Spesso l’opera di un autore ruota intorno a non più di due, tre temi di fondo che, per qualche motivo (a volte personale) più insistentemente lo interrogano: è dalla necessità di rispondere a questi quesiti che nascono e si sviluppano sistemi di pensiero complessi, attraversati da quei sottili fili conduttori che ne costituiranno la trama essenziale. Ebbene, dalle intense pagine degli Scritti 1953-1980 di Franco Basaglia (Il Saggiatore, pp. 915,  euro 42,00), la questione che emerge come un vero assillo intellettuale, riproponendosi come una urgenza al tempo stesso etica professionale e politica, è riassumibile nella necessità di evitare che una idea innovativa si trasformi in ideologia.
Scongiurare il rischio che i fattori di cambiamento venissero riassorbiti all’interno della logica contestata, questo era il problema, insieme all’esorcizzare la traduzione del pensiero in dottrina e il livellamento delle sporgenze dialettiche.

Rieducare i terapeuti
Sin dai primi testi di antropofenomenologia della fine degli anni Cinquanta è evidente tanto lo sforzo di comprendere la condizione psicopatologica del malato – postura clinica che Basaglia ereditò dall’insegnamento fenomenologico ma che ebbe il merito originale di introdurre all’interno delle istituzioni manicomiali – quanto l’attitudine critica nei confronti di posizioni teoriche dogmatiche e, soprattutto, slegate dalla prassi terapeutica. Ma è proprio nei testi dedicati alla progressiva elaborazione di un nuovo modo di pensare la psichiatria istituzionale (dai primi resoconti della rivoluzionaria esperienza di Gorizia fino alle ultime considerazioni della fine degli anni Settanta), che è possibile apprezzare il raffinato e implacabile procedimento dialettico che Basaglia applicherà alla propria riflessione teorico-clinica: all’iniziale critica della logica manicomiale, sarebbe seguita la presentazione della prima proposta operativa, concreta, realizzabile: la Comunità Terapeutica, ambito operativo di trattamento della malattia mentale affermatosi in area anglosassone, che Basaglia si sforzò di introdurre in Italia come possibile superamento dell’istituzione manicomiale.

Era la prima metà degli anni Sessanta e stava facendosi strada un nuovo modo di pensare la cura del malato mentale nella quale alla comprensione della sua sofferenza, si rendeva necessario associare – ed è questo il rivoluzionario innesto concettuale – una radicale trasformazione dell’ambiente terapeutico, una ridefinizione – o meglio una vera fondazione – di un setting inedito, capace di fare spazio all’aggressività del paziente, di eliminare le derive autoritarie presenti nella relazione curante-curato, di rieducare i terapeuti, non solo in termini professionali.

La svolta fu straordinaria e certamente resa possibile anche dalla sintonia con il clima culturale dell’epoca: l’esperienza di Gorizia germogliò in questa fase. Ancora una volta, tuttavia, fu lo stesso Basaglia a mettere in discussione questa svolta, sin dalla seconda metà degli anni Sessanta, avviando così, una nuova fase di revisione dell’esperienza realizzata (questa volta, la propria): di attualità era ora l’osservazione di come il regime di tolleranza che caratterizzava la Comunità Terapeutica non avesse fondamentalmente intaccato la logica della violenza del precedente ricovero manicomiale.

La Comunità Terapeutica – afferma Basaglia – libera il malato psichiatrico all’interno dell’istituzione ma continua a escluderlo dal «fuori». Le barriere interne all’ospedale sono cadute, ma non quelle che lo separano dalla vita sociale. Così, la critica al modello della Comunità Terapeutica (che si estenderà alla psicoterapia istituzionale) sarà tanto dura da sfociare in una affermazione inesorabile: la Comunità è l’istituzione terapeutica del neocapitalismo; è un intervento tecnico supino alla politica che lo controlla, una nuova istituzione al suo servizio: molle, buona, tollerante ma che conserva, del vecchio modello di cui si propone come superamento, la stessa logica di soggezione del malato al curante.

Si tratterà, allora, di oltrepassare l’esistente, di conquistare un nuovo campo di possibilità: ed ecco che all’ulteriore fase di destrutturazione farà seguito una nuova epoca di progettazione, quella che condurrà Basaglia a formulare le considerazioni teoriche e i principi etici sui quali la legge 180 fonderà l’inedita presa in carico della malattia mentale. Qualunque forma di istituzionalizzazione, anche quella più morbida, che più si ispira ai principi democratici, conserva la sua funzione essenziale, quella di controllo sociale (sebbene mascherata da intervento tecnico innovatore). Occorrerà dunque uno strappo ulteriore per far definitivamente cadere le barriere che separano il manicomio dal mondo esterno, impedire nuove ammissioni di malati e la costruzione di nuovi ricoveri psichiatrici, aprire quelli che ci sono alla quotidianità sociale, includere gli uni nell’altra istituendo servizi territoriali, ambulatori e reparti psichiatrici in ospedali comuni.

Non un approdo
La grande stagione di Psichiatria Democratica inaugura così l’epoca dell’entusiasmo e del contagio che il nuovo pensiero porta con sé. Sarebbero stati necessari molti anni per realizzare in pieno l’auspicata chiusura dei manicomi, ma il processo riformatore era ormai, irreversibilmente, avviato. Una volta di più, tuttavia, Basaglia rifiutò di fare di questo traguardo un approdo: la consapevolezza di quanto la realtà sociale restasse immutata a dispetto delle idee che cambiavano, gli impedì di compiacersi dei risultati raggiunti e lo spinse a metterne alla prova la tenuta. La qualità intellettuale di Basaglia si misura proprio con l’assoluta inflessibilità della sua postura etica e teorica che, da Crimini di pace in poi, lo avrebbe condotto a formulare considerazioni penetranti e incisive sul delicato rapporto tra tecnica e politica e sul ruolo sociale degli intellettuali, il cui compito – afferma nei testi degli anni Settanta – è mettere in crisi l’equilibrio sociale generale, «svelando il lato ideologico dei suoi principi».

Liberarsi – per quanto si può – dell’involucro borghese che lo avvolge è il dovere etico di ogni intellettuale, che deve emanciparsi dalla propria posizione di funzionario del consenso nella quale si punta a ridurlo, rinunciando a svolgere mandati educativi, ed essendo, soprattutto, disposto a «pagare di persona»: l’inestricabile intreccio tra tecnica, sapere e politica, tra teoria e prassi sociale – di cui la vita di Basaglia rappresentò un paradigma esemplare – sarebbe stato al centro delle sue riflessioni fino al termine della vita.

La sua idea di cultura
In quello che appare come una sorta di testamento, scrive: «non credo si faccia cultura scrivendo libri, si fa cultura soltanto nel momento in cui si cambia la realtà». In un’epoca dominata da una produzione editoriale sempre più conforme al pensiero dominante e dalla proliferazione capillare di festival che trasformano i cittadini in consumatori dello spettacolo della cultura, le parole di Basaglia ci danno la misura della distanza che separa la figura di un intellettuale, come lui lo intedeva, dalle sue caricature.