Racconta Atom Egoyan che l’ispirazione per questo suo nuovo film (in gara) gli è venuta osservando il crescente numero di ragazzi scomparsi in Canada, una galleria di volti sui manifesti appesi ovunque, che i genitori continuano a cercare disperatamente. La cronaca in sé, nel cinema del regista canadese di origini armene – del quale è ancora nelle nostre sale il precedente Devil’s Knot – non è una componente fondamentale. L’idea dei ragazzini che scompaiono è già nel suo (molto bello) Il dolce domani, e lo stesso l’ostinata ricerca di un padre della figlia, un’ossessione fantasmatica percorsa dai sensi di colpa, proprio come accade qui. Ma, stavolta, il tema è di quelli «importanti», che servono alle cronache mediatiche, per dire qualcosa oltre e al di là del film (fischiatissimo alla proiezione stampa).

Si parla infatti di pedofilia: la ragazzina che scompare all’inizio della storia, narrata in modo non lineare, con continui détour tra passato e presente, viene rapita in un momento di distrazione del padre – la lascia in automobile per comprare una torta – da un pericolosissimo pedofilo. Che è, a sua volta, il tassello di una rete dietro alla quale si celano nomi potenti, persone che contano e che, in virtù di questa loro influenza, riescono a sfuggire alla polizia e a muovere le pedine utili ai loro scopi. Sembra non esserci scampo in quel paesaggio gelato di neve, nel quale ogni stanza nasconde una telecamera di controllo e, dal suo «buco», la ragazzina col nome quasi da predestinata, Cassandra, ormai cresciuta vede sua madre distrutta dal dolore odiare suo padre (Ryan Reynolds), sospettato dalla prima ora di essere almeno complice della sua sparizione, che invece con ostinazione vaga nel bianco sperando di trovarla. Nella camionetta tutto è come quel giorno, quasi un sortilegio in attesa della catarsi.

Poi c’è l’ispettrice, specializzata in caccia ai pedofili (Rosario Dawson), il feroce maniaco che ha rapito Cassandra la teme, e la tiene anche lei sotto controllo. L’uomo (Kevin Durand) lavora nell’azienda più influente della zona, e forse anche il suo boss ha qualche tentazione per i bambini. Usano internet, tecnologie avanzate di protezione, Cassandra adesca i più piccini dal portale. Intanto, il ragazzino che pattinava con lei continua a aspettarla.

È un trucco? O un artificio che non serve, chiedeva al padre prima di essere portata via… E l’artificio – ma forse sarebbe meglio dire il trucco – domina nella messinscena di Egoyan fatta di schermi in cui esplode in infiniti frammenti la realtà, oggi ancora più inafferabile nell’orizzonte immateriale della rete.

Cassandra, ex principessina di un regno delle tenebre, dice con la vocina infantile al suo aguzzino: «oggi non ti servo più, sono grande ormai». E gli chiede emozioni per inventare le sue storie con cui sedurre altri bimbi. Guardare sua madre da lontano per farla piangere, incontrare per un attimo il padre, e rassicurarlo: ci seguivano mi avrebbero presa lo stesso. Anche lui è stato «adottato» dal padrone dell’azienda, intuiamo un passato doloroso come quello dell’ispettrice, salvata dalla famiglia adottiva. Avrei voluto incontrarti da piccola, le sussurra una della banda, rapita e abusata anche lei da piccolina, ora complice del pedofilo. Ma in questo gioco di specchi, ogni personaggio richiama l’altro, cela nel suo passato qualcosa che lo spinge e al tempo stesso lo mette all’opposto dell’altro, l’ispettrice e il maniaco che canta arie di Mozart osservando il dolore del mondo. Sindrome di Stocccolma o plagio? Le relazioni tra «vittima» e «carnefice» sono potenzialmente il lato più interessante del film, Egoyan non si avventura però mai nella zona oscura delle relazioni tra i suoi personaggi, rimanendo sui margini di un’ambiguità noir che è solo di superficie.