È passato un anno da quando Adriano Trevisan morì di Covid a Schiavonia e Mattia da Codogno risultò positivo al coronavirus. È una data che oggi ricordiamo come le dichiarazioni di guerra. Solo che stavolta in guerra ci siamo entrati sapendo di avere solo da perdere, e che le nostre truppe avevano scarponi di cartone e quattro stracci al posto delle mascherine. Un anno dopo, nella rotonda di Vo’ Euganeo dove i militari presidiarono la prima zona rossa d’Italia è stato piantato un simbolo di pace, l’ulivo, e il tricolore sventolerà al municipio come si fa per i caduti.

Un anno dopo, della retorica pseudobellica e anche di quella di queste prime righe, in molti non sanno che farsene. Primi tra tutti i nostri eroi nazionali, i medici, che hanno continuato a morire all’incirca nello stesso modo nella prima e nella seconda ondata, nonostante i Dpcm, i lockdown, le riforme della sanità territoriale annunciate e mai arrivate, le misteriose Usca. L’elenco dei morti aggiornato dall’Ordine dei medici, che in primavera i giornalisti consultavano quotidianamente, poco a poco è uscito dai radar. I medici però non hanno smesso di morire. La lista, da cui saranno sfuggiti parecchi sanitari, è arrivata a 325 nomi. Significa circa uno al giorno, 160 nella prima ondata e altrettanti nella seconda. Evidentemente, dall’inizio della pandemia a oggi la riorganizzazione della rete ospedaliera, la separazione tra i percorsi Covid/non Covid e i dispositivi di protezione non sono ancora sufficienti a mettere in sicurezza gli operatori sanitari. Lavorare a contatto con pazienti Covid, a un anno di distanza, è ancora un mestiere pericoloso.

IL RAFFORZAMENTO del sistema sanitario ha riguardato soprattutto i posti letto e le strumentazioni, ma per rafforzare gli organici dei medici si è fatto poco. Secondo il rapporto del centro di ricerca Altems, il numero di anestesisti/rianimatori in un anno è crollato da 2,5 medici per posto letto a 1,6, poco più della metà. Per far fronte alle prossime pandemie serviva una rapida iniezione di personale, ma notoriamente i medici non crescono sugli alberi. Quindi per assumerne di nuovi bisognerà attendere il tempo necessario affinché i cinquemila neolaureati in medicina in più ammessi quest’anno alle scuole di specializzazione si formino nei prossimi cinque anni. Eppure sappiamo già che non basteranno: secondo i dati del sindacato dei medici ospedalieri Anaao-Assomed, tra il 2019 e il 2025 andranno in pensione circa 52 mila medici, e saranno sostituiti da circa 38 mila specializzati, quelli già in corso di formazione. Anche tenendo conto dello sforzo post-pandemia, il numero di medici nei prossimi anni continuerà a diminuire.

IN QUESTI DODICI MESI, tuttavia, si è capito che lo stato di salute della comunità dipende soprattutto dall’efficienza della medicina territoriale. Per rafforzarla, il ministro Speranza aveva annunciato «l’assunzione a tempo indeterminato di 9.600 infermieri di comunità» con il decreto Rilancio di maggio. A otto mesi di distanza, di quelle assunzioni ne è stato effettuato solo il 10%, secondo l’Ordine degli infermieri.

Né pare migliorato il rapporto tra medici di base e servizio sanitario nazionale. Oggi come ieri, i medici di famiglia rimangono liberi professionisti in convenzione.

Con tutti i vantaggi dell’autonomia, ma con lo svantaggio di trovarsi soli di fronte a una pandemia, con le mascherine comprate su internet e strutture inadeguate a fronteggiare un rischio sanitario diffuso e invisibile come un virus. A farne le spese sono soprattutto i pazienti, perché quando il medico si ammala o non effettua visite domiciliari non rimane che il pronto soccorso. Eppure, nemmeno dopo un’epidemia da centomila morti in un anno si parla di una riconversione pubblica della sanità frammentata da anni di esternalizzazioni.

NELL’ANNO DELLA PANDEMIA, però, sono arrivate anche buone notizie. Grazie a un formidabile investimento di soldi pubblici (2,7 miliardi di euro dall’Emergency Support Instrument europeo e oltre 12 miliardi di dollari dalla operazione “Warp Speed” statunitense, per limitarsi ai principali investitori occidentali), in soli dodici mesi abbiamo a disposizione un discreto numero di vaccini efficaci: un record storico, perché nell’era pre-Covid per sviluppare un vaccino servivano 10 anni. Non tutti i soldi sono stati spesi per la ricerca: una buona parte ha remunerato gli azionisti delle aziende. Ma questo dimostra che il mercato e i brevetti non sono gli strumenti più efficienti per affrontare le crisi sanitarie. Nemmeno i soldi pubblici, tuttavia, sono in grado di sconfiggere il virus, se il mercato è sostituito dal nazionalismo sanitario. Il virus ha dimostrato di saper mutare e aggirare i vaccini, quindi l’immunità di un singolo paese è una barriera illusoria. Se vogliamo davvero difenderci, è necessario che sia il nostro modello sociale a sviluppare una mutazione.