Interno domestico a Tel Aviv. In linea con il cosiddetto cinema greco della crudeltà post-Lanthimos, Un certain regard presenta Loin de mon père (Lovely Girl) di Keren Yedaya, cineasta israeliana, habitué della Croisette, vincitrice della Camera d’or nel 2004 per Mon tresor, sua opera prima. Cinque anni dopo Jaffa, Loin de mon père si presenta come un’opera interlocutoria e nient’affatto convincente.

La cineasta non è certo nuova alle tematiche femministe colte nell’intreccio di relazioni familiari complesse nelle quali inevitabilmente si riflettono le contraddizioni della Naqba e dell’occupazione del territorio palestinese. Quindi sulla carta il nuovo film della regista sembrava vantare notevoli spunti d’interesse. Adattamento di un romanzo controverso, Far From His Absence dell’autore israeliano Shez e incentrato ossessivamente sulla problematica dell’incesto, il film resta invece sorprendentemente inerte nel corso dei suoi lunghissimi 95 minuti.

Moshé (interpretato con inquietante convizione da Tzahi Grad) vive in un piccolo appartamento con la figlia Tami (Maayan Turjeman) che soffre di disturbi alimentari, s’infligge spaventose overdose di snack al cioccolato e s’incide le braccia con un taglierino.

Tami, pur essendo chiaramente la vittima della relazione, a suo modo ama il padre-amante, se non altro come manifestazione di una disperata dichiarazione d’esistenza.

Lui, invece, mostruoso padre-padrone fallico, dispone del corpo della figlia a suo piacimento, sottoponendola a una serie continua di stupri rituali perpetrati attraverso l’alibi dell’amore. E ogni analogia con l’occupazione palestinese non è affatto casuale.

Messo in scena attraverso una sorta di muta e attonita oggettività, che in realtà denuncia probabilmente maggiore imbarazzo di quanto gli autori non vogliano ammettere, il film sembra oscillare indeciso fra la dimensione metaforica di film come il controverso Miss Violence (l’incesto è sempre, inevitabilmente, segno di qualcos’altro…) o la frontalità austriaca di matrice Seidl, resta in ultima analisi intrappolato in una dimensione completamente dominata dalla sceneggiatura.

Come se il film stesso vivesse sul piano della forma l’illibertà concentrazionaria della protagonista, privata del suo desiderio e della sua sessualità. Inerte drammaticamente, deterministico politicamente, inficiato ulteriormente da un utilizzo segnaletico dello zoom (laddove le dimensioni ridotte del perimetro domestico avrebbero potuto suggerire altre soluzioni narrative meno sbrigative…), Loin de mon père è un film tristemente sbagliato oltre che la prima battuta d’arresto della carriera di Keren Yedaya.

Moshé, sorta di Fritzl israeliano, mostro che occulta la propria aberrazione in un mondo che sembra aver perso la capacità dell’orientamento umano e politico (cui fa da contraltare il una spenta Yaël Abecassis, alternativa politically correct al padre), resta personaggio piattamente enunciato e a nulla vale il siparietto durante il quale fa il verso al profeta Elia. Profondità e prospettiva non appartengono a Loin de mon père.