Ancora una volta, l’astronomia ha conquistato le prime pagine di tutti i giornali. Non sono mancati editoriali, commenti e persino un graziosissimo doodle di Google per celebrare la scoperta: un sistema planetario con ben sette pianeti (almeno) simili alla terra attorno una stellina relativamente «vicina» (in termini astronomici) a noi: a 39 anni luce (la luce, a 300mila km al secondo ci impiega 39 anni ad arrivare: a voi i calcoli).
La stella si chiama Trappist-1A (la nazionalità del suo principale scopritore tradisce un probabile gioco di parole con la nota birra belga, ma si tratta della sigla in inglese del nome del telescopio, «piccolo telescopio per il transito dei pianeti e dei pianetesimi»). Non ha nulla a che vedere con la nostra: è una nana rossa, un tipo di stelle frequentissime nella nostra galassia, molto più piccole e molto meno luminose del nostro sole, ma che vive molto più a lungo.

LA QUESTIONE è che dei circa 3500 pianeti extrasolari scoperti e confermati sinora, il caso del sistema Trappist è unico: è la prima volta che si scoprono tanti pianeti così simili alla terra per dimensioni e massa che orbitano attorno a un tipo di stella come questo e per giunta molti di loro in una zona detta «abitabile», un vago concetto che significa più o meno che potrebbe essere presente acqua liquida. Ma sono anche pianeti molto bizzarri: innanzitutto sono vicinissimi alla loro (piccola) stella. Il più lontano dei sette è a un decimo della distanza dal sole del pianeta Mercurio, il più vicino al sole. L’anno (cioè il tempo di rivoluzione attorno alla stella) del più lento dei sette dura circa 12 giorni, e il più rapido dura un solo giorno.
Sembra pure che possano mostrare sempre la stessa faccia verso la loro stella (un po’ come la luna rispetto alla terra) e che siano così vicini l’uno all’altro che, se ci fossimo sopra, potremmo vedere a occhio nudo i fenomeni atmosferici degli altri pianeti. Materiale ricchissimo per la fantascienza, ma in quanto a vita aliena per ora solo congetture. Già è abbastanza straordinario essere riusciti, con l’aiuto di telescopi a terra e nello spazio, a osservare il «transito» dei pianeti sulla loro stella, cosa che ha permesso di calcolare tutte le altre caratteristiche fisiche del sistema. Riuscire a «vedere» direttamente i pianeti è per ora impensabile, come arrivare a visitarli.

LA NASA HA TUTTO l’interesse a pompare la sua scoperta, per di più in un momento in cui i finanziamenti potrebbero essere sempre più incerti con la nuova amministrazione. Ma è anche vero che il campo della ricerca di pianeti extrasolari sta vivendo un boom travolgente. Se pensiamo che il primo pianeta extrasolare fu scoperto nel 1995 da Michel Mayor e Didier Queloz (quest’ultimo anche tra i firmatari dell’articolo di Nature su Trappist-1), e che la questione della presenza di altri sistemi planetari nella nostra galassia era stata fino ad allora una mera elucubrazione teorica, ci accorgiamo che gli scienziati oggi osservano l’universo con occhi completamente nuovi.

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Per Giuseppe Lodato, professore di astrofisica alla Statale di Milano, ed esperto di simulazioni numeriche sulla dinamica della formazione dei pianeti, la scoperta di questo sistema è «la conferma che in stelle così piccole possono formarsi pianeti di tipo terrestre», come molti astronomi sospettavano da tempo. E fa notare che, data la grande vicinanza fra di loro, e con la loro stella, «gli effetti dell’interazione gravitazionale potrebbero creare dinamiche interessanti». «Oggi sappiamo – continua – che la formazione planetaria è un processo frequente e che la struttura dei sistemi planetari può essere molto variegata». La sfida per il futuro, dice Lodato, è nella caratterizzazione delle atmosfere e dello studio della formazione planetaria all’opera.
Antonio Lazcano, professore dell’Universidad Nacional Autónoma de México e uno dei maggiori esperti di formazione della vita, ritiene sì «affascinante l’inventario sempre più grande di pianeti extrasolari», ma il suo legame con le scienze che studiano l’origine della vita è molto «tenue».

https://www.google.com/doodles/seven-earth-size-exoplanets-discovered

«C’È UNA DIFFERENZA riguardo il punto di vista degli astronomi e dei biologi su questi temi – spiega – Per un astronomo un pianeta di tipo terrestre dove ci potrebbe essere acqua, anche se non è dimostrato, è un posto dove potrebbe esserci vita. Per un biologo evolutivo (sempre che non sia finanziato dalla Nasa), queste sono condizioni minime. Ci vuole almeno un pianeta con idrosfera, sintesi abiotica di composti organici, abbastanza tempo (ma non sappiamo quanto) perché appaiano polimeri capaci di replicarsi e adattarsi, e un lungo eccetera. La ricerca della vita oltre la terra è una questione scientifica legittima e stimolante. Anche se bisogna evitare sia gli scenari fantascientifici, sia quelli teleologici: basta trovare un pianeta terrestre che subito qualcuno pensa che debba esserci vita intelligente! Né la formazione dei pianeti, né l’origine della vita sono oggi considerati il risultato di eventi imperscrutabili: sono solo il risultato naturale di processi evolutivi».
Indubbiamente però, la possibilità per quanto remota di poter rivelare la presenza di vita al di fuori della terra, magari osservando nelle atmosfere di questi pianeti la presenza di qualche molecola solo spiegabile con la presenza di vita, o addirittura, come sperano i più ottimisti, con l’invio di un segnale (nel caso dei sistemi planetari delle stelle più vicine ci vorrebbe soltanto qualche anno perché il segnale ci raggiungesse), potrebbe cambiare per sempre la nostra prospettiva sul mondo.

Il filosofo della scienza dell’Università di Padova Telmo Pievani nota che «nel nostro immaginario, gli alieni irrompono quasi sempre all’improvviso. Stiamo invece facendo esperienza di una graduale acclimatazione all’idea che non siamo soli nell’universo, alla consapevolezza che il cosmo brulica di altre forme di vita. Se ciò è vero, significa che nei prossimi decenni quel cambiamento filosofico e scientifico radicale s’impadronirà di noi lentamente ma irreversibilmente, e ci abitueremo all’idea di avere altri compagni nell’universo».

E QUESTO, dice Pievani, «ci farà sentire meno soli e meno eccezionali, meno ossessionati dalla nostra narcisistica solitudine terrestre. Impareremo a dare meno importanza a ciò che ci divide come esseri umani e più a ciò che ci unisce. Molti comportamenti ci appariranno finalmente nella loro immensa e inutile stupidità. Le religioni non moriranno, credo, ma si trasformeranno: nella chiesa cattolica si stanno già preparando a riadattare la dottrina per includere gli alieni!».

Quanto alle scienze, «si tratterà del più grande esperimento evoluzionistico mai realizzato: cioè capire se la vita su due pianeti diversi si evolve in modo completamente diverso a causa di parametri planetari differenti, oppure se l’evoluzione porta sempre a forme via via più complesse e intelligenti a modo loro. Io ne dubito, ma qualcuno ne è convinto».