Perché ancora Adolf Hitler? Per quali ragioni tornare con un libro su di lui quando esiste una quantità, pressoché industriale, di titoli che, in maniera più o meno condivisibile, ci raccontano della sua vita, dei suoi misfatti, delle sua miserevole ma sorprendente traiettoria di esistenza, espressione della peggiore immoralità?
Negli ultimi cinquant’anni la storiografia ha fatto passi da gigante, a tale riguardo. E non solo per ciò che riguarda il profilo del dittatore, aspetto importante ma non necessariamente decisivo. In quanto l’universo nazista, composto di un’ideologia, così come di individui, di decisioni, di azioni ma anche di istituzioni, consenso e partecipazione, è stato scandagliato da tutti i punti di vista possibili.

Si è transitati dalla mostrificazione, dalla condanna a prescindere (quella che, mischiando preventivamente giudizio di fatto a giudizio di valore, non permette di comprendere le dinamiche politiche e sociali che producono invece l’accettabilità dell’orrore quotidiano) all’indagine sul complesso sistema di apparati, di compiacenze, di sudditanze, di condivisioni che hanno reso plausibile l’altrimenti inammissibile.

DALLE OPERE di un Joachim Fest si è quindi transitati, per passaggi successivi, agli studi di un Ian Kershaw. Solo per fare due nomi, tra quei tanti, che non sono in sé antitetici ma suggellano stagioni culturali tra di loro molto diverse. Alla ricerca di un «eccezionalismo tedesco» – che da sé dovrebbe spiegare tutto, identificando in un’irripetibile specificità germanica i prodromi e gli esiti di una tragedia europea, ossia la dittatura e lo sterminio razzista – si è quindi passati all’analisi delle complesse dinamiche che hanno portato una società europea, con un elevato sviluppo socioculturale, a costituire l’epicentro di uno sconvolgimento senza pari. Destinato quindi a lasciare un segno indelebile.

In tutto ciò, quanto la storiografia sia concretamente riuscita a superare sono semmai il sensazionalismo, l’aneddotica così come il gusto perverso per l’elucubrazione fine a se stessa che, invece, non poca pubblicistica continua ad alimentare.

C’è qui un problema di fondo che una studiosa dei costumi e dell’immaginario sociale qual era Susan Sontag, non una storica di formazione, già negli anni Settanta aveva identificato: al netto dei concreti sistemi di potere che ha costruito, il nocciolo del nazismo risiede, tra le molte cose, nella modernità dei suoi simbolismi. I quali si fondono con la concretezza e la materialità delle politiche di potere. Il nazionalsocialismo, i fascismi continentali e, con essi, i loro leader, sono quindi pienamente inseriti dentro le dinamiche storiche che li hanno prodotti. Non come risultato necessario, e ancora meno obbligato, ma in quanto elemento di quadro – quello della crisi europea – che deriva dalle trasformazioni che la società industriale, e con essa la partecipazione collettiva alla vita politica, producono nel corpo del Continente.

NESSUN DETERMINISMO, nessun vincolo obbligato ma piuttosto la consapevolezza di come le nozioni di «sviluppo», di «progresso», di «evoluzione», siano anche e soprattutto uno strumento per occultare i conflitti, le asimmetrie, i differenziali di opportunità – e quindi la concreta diseguaglianza – che soggiacciono ai dispositivi che producono quelle condizioni di incertezza collettiva che quindi conosciamo come «crisi» irreversibile degli ordinamenti costituiti.

Dopo di che, posta una tale premessa, lavorare ancora su Adolf Hitler, spiegarne la vita, comprenderne l’incidenza, è oramai – forse – un obiettivo pressoché impossibile. Poiché non si può disgiungere il biografato dalla mitografia, perlopiù negativa (e quindi anche di grande attrazione per una parte dei contemporanei), che sulla sua persona fisica, sulla sua esistenza materiale si è costruita nel corso del tempo. Uno dei personaggi maggiormente raccontati nel secolo da poco trascorso. Ecco, forse un primo punto da cui partire è proprio questo: Hitler non è solo un essere in carne ed ossa del nostro passato bensì la metonimia del male. La qual cosa, ancora una volta, non ci aiuta ad affrontare il tema non solo di un’esistenza ma della sua rilevanza per un’intera epoca storica.

A TALE RIGUARDO due storici francesi, i cui densi lavori sono in via di traduzione anche nel nostro paese, ossia Johann Chapoutot e Christian Ingrao, hanno redatto una biografia essenziale, Hitler (Laterza, pp. 140, euro 16), che intende offrire uno sguardo sintetico su un soggetto così problematico da rischiare di essere irraggiungibile se non attraverso le banalizzazioni e le generalizzazioni di circostanza. Si tratta di un volume breve ma molto denso, particolarmente consigliato per chi intenda andare oltre i ritualismi interpretativi. Poiché la sua vera radice è quella di presentare al grande pubblico i risultati di decenni di ricerca, analisi e riflessione storica.

NEL TESTO, infatti, la vita del dittatore tedesco è strettamente intrecciata sia alle dinamiche del suo tempo che ai processi di trasformazione indotti dalla risposta nazista alla crisi liberale e sociale europea. I tre elementi (individuo-tempo storico-azione e reazione), per più aspetti, si fondono tra di loro, al punto da diventare indistinguibili. Adolf Hitler si scontorna sullo sfondo di un transito epocale – quello dell’Europa a cavallo tra due guerre – dove precipitano non solo persone, cose e situazioni ma anche significati, interessi e valori.
I due autori rifiutano la Geistesgeschichte, ovvero quella «storia delle idee» per la quale la realtà è essenzialmente il prodotto di una volontà individuale (come anche collettiva).

Mentre invece si interrogano, al pari di una parte crescente della storiografia di queste ultimi decenni, su quali siano le meccaniche che, poste le premesse di una destrutturazione degli equilibri precedenti, definitivamente segnata dal transito bellico del 1914-1918, portano ad uno scenario in cui la società si rigenera in una sorta di mobilitazione totale, dove l’esito pressoché scontato è quello di un nuovo confronto bellico. Inteso come condizione pressoché permanente, in quanto il costrutto di fondo dei fascismi è che il conflitto sociale sia inesistente, trasfondendosi semmai nella contrapposizione etnorazzista. Una sorta di movimento totale e perpetuo. La guerra ne sarebbe una sintesi tanto immediata quanto auspicabile.

L’attenzione è quindi posta sull’impianto ideologico del nazismo che, nel suo manifestarsi, non è solo affermazione di una concezione della vita come puro fatto biologico ma nuova ossatura di un progetto imperialista, che non è più vissuto come espressione delle classi dirigenti ma anche e soprattutto come rivalsa di quelle subalterne.

RIMANE IL PROFILO di Hitler che, in un tale contesto, mantiene comunque una sua specificità. Ancora una volta, è pressoché impossibile distinguere l’individuo, nella sua traiettoria personale, dalle grandi dinamiche di quanto non solo ha generato ma in cui si è totalmente identificato. A modo suo è un esempio di «politico totale», che ribadisce, attraverso sé stesso, l’autonomia della sfera della decisione attribuita alla funzione esecutiva: l’economia, in questo sistema, ha una fisionomia propria ma non sovrana. Un cavallo di battaglia, per intenderci, dei fascismi di allora e, tanto più, di oggi.

Il volume di Chapoutot e Ingrao ha il pregio di riuscire a tenere insieme l’estrema complessità dell’intelaiatura dei fatti storici con la necessità di identificare il profilo del biografato. In quanto tale, non indulge in facili e banali semplificazioni. In nessuna pagina del testo ricorre la necessità di definire Hitler in un unico modo, come invece capita quasi sempre con la pubblicistica di grana grossa. Men che meno con espressioni ad effetto.

L’esposizione rimane apprezzabilmente fluida. Mentre permane una questione irrisolta, che non è parte del libro in quanto tale ma che è implicata dalla sue riflessioni: al pari di altre figure preminenti del Novecento, forse più di esse, Adolf Hitler continua ad esistere anche come una sorta di icona pop. Non importa quanto negativa. È nell’apparato mitopoietico dei fascismi, infatti, riuscire a riprodursi – anche a prescindere dal tempo di cui sono immediata espressione – come un profondo calco. Il cui perimetro è non solo nero e bruno ma anche, sempre più spesso, grigio. Ovvero dove le cose sono così soffuse da risultare tanto irriconoscibili quanto seducenti, quindi di nuovo accettabili. Il tempo a venire ci dirà come e in cosa, dinanzi alla crisi di trasformazione che stiamo da tempo attraversando.