Nel suo bel primo libro, Come mi batte forte il tuo cuore, Benedetta Tobagi aveva guardato agli anni settanta del secolo scorso attraverso il punto di vista della sua storia personale (quale figlia di Walter Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980 sotto casa, a Milano, da una formazione terroristica di sinistra), e cioè dal punto di vista di un’autobiografia.
Ora è in libreria da pochi giorni il secondo libro di Tobagi, Una stella incoronata di buio (Einaudi, pp. 470, euro 20), che guarda ancora a quel decennio, ma questa volta a partire da storie personali altrui: in particolare, quella di Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei famigliari dei caduti di piazza Loggia che nella strage avvenuta a Brescia, il 28 maggio 1974, perse la moglie, Livia Bottardi, e gli amici Alberto Trebeschi, Clementina Calzari Trebeschi e Giulietta Banzi Bazoli (in tutto, i morti furono otto).
Poiché la Storia è fatta di destini individuali e del loro incrociarsi e poiché parlare di una strage significa innanzitutto ricordare coloro che l’hanno subìta, narrare la storia di Manlio e di Livia e dei loro amici significa non solo descrivere lo spirito del tempo, ma anche tracciare già le linee della strage stessa. Alla fine della prima parte del libro, declinata in forma di vera e propria biografia (fino a pagina 148), i contorni dell’eccidio di Brescia del 1974 risultano dunque già delineati. Manlio Milani era iscritto al Pci ed era molto impegnato sia nelle attività della sezione Gheda di piazzale Garibaldi e del circolo culturale collegato alla sezione, sia nell’attività sindacale; e come lui erano coinvolti anche Livia, Alberto, Clementina e Giulietta.
Alla luce di questo impegno, la loro presenza in piazza della Loggia, la mattina del 28 maggio 1974, non era casuale, perché quel giorno proprio lì era stata indetta una manifestazione che si richiamava ai valori dell’antifascismo, contro l’indulgenza dello Stato (in persona delle forze dell’ordine e di una parte almeno della magistratura) nei confronti del crescendo di violenze di stampo neofascista che aveva colpito negli ultimi anni (dal 1968 in avanti) Brescia e la sua provincia. Anche la strage di piazza della Loggia si iscrisse, come si capì fin da subito, dentro la medesima matrice.
Ma il libro è costruito sopra un perfetto equilibrio fra sentimento e intelligenza e così, nelle sue parti successive, il campo si allarga. Le storie personali lasciano il posto al racconto delle indagini e dei processi (complessivamente, come danno atto le preziose note finali, la vicenda giudiziaria relativa alla strage di Brescia si compone di cinque fasi istruttorie e di dieci fasi di giudizio) e alla descrizione dei loro protagonisti (indagati, imputati, parti civili e avvocati degli uni e delle altre).
Capire costa fatica, Tobagi lo sa e lo dice, perché capire vuol dire cercare di distinguere, contro la pigrizia del cuore di cui parlava Musil (è l’autrice stessa a citarlo); ed è proprio qui l’intelligenza del libro, nel non sottrarsi a questa fatica, nel non fare di ogni erba un fascio. L’analisi è documentatissima, e ne emergono trame fitte, che coinvolgono anche lo Stato a ogni livello, tentativi di golpe e depistaggi. Tutto si tiene, dentro le ombre degli anni settanta: la rete del terrorismo nero da una parte, e quella del terrorismo rosso dall’altra.
Oggi, a distanza di quasi quarant’anni, la strage di Brescia rimane impunita: nessun colpevole, hanno sostenuto le sentenze. Ma le sentenze non sono costituite solo dai loro dispositivi, bensì anche dalle motivazioni, che a loro volta poggiano su migliaia di documenti e carte processuali. Da questi ultimi, ciò che emergerebbe con certezza è almeno la riconducibilità dell’ideazione della strage all’eversione neofascista (alla «galassia di Ordine Nuovo» in particolare).
Il resto è silenzio, perché è il silenzio, ripete spesso Manlio Milani, il vero segreto di Stato. Forse, senza questa afasia, la stella di Livia non sarebbe «incoronata di buio», come il verso di Pierluigi Cappello da cui è tratto il titolo del libro. E tuttavia «niente, niente è perduto», recitano i versi di un’altra poesia, di Paul Celan, posti in chiusura: se esiste un’eredità da raccogliere, «una stella ha forse ancora luce». Il grande merito di Manlio Milani consiste nell’aver raccolto l’eredità di Livia e dei suoi amici, offrendone costante testimonianza (con passione, eppure mai con livore), e nell’essere riuscito a tramutare, in questo modo, il dolore della sopravvivenza in una continuità di senso; quello di Benedetta Tobagi nell’aver fatto anche propria questa eredità, e nell’averle dato voce a sua volta.